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La crisi

Europa, una dura austerità

Il clima politico teso e mutevole non facilita le cose

di Gianni BORSA Redazione

21 Maggio 2010

Se le parole hanno un senso compiuto e condiviso, al di là delle differenze linguistiche, ciò che si prospetta per l’Europa è una lunga fase di sacrifici, dopo che ci si è finalmente resi conto che la crisi economica non è affatto passata. Quegli analisti e quei politici che già alcuni mesi fa erano convinti che fossimo usciti dal tunnel raccontavano una realtà inesistente. La crisi partita dagli Stati Uniti due anni orsono ha investito il vecchio continente su tutti i fronti: produttivo, occupazionale e, naturalmente, finanziario. Ora – non è mai troppo tardi – è giunto il momento della resa dei conti e dei provvedimenti risolutivi, i quali prevedono, appunto, tagli e sacrifici. Lo ha spiegato, tra gli altri, con estrema chiarezza Angela Merkel: «Ci aspetta una dura austerità». La crisi greca obbliga ad agire sul fronte dei conti pubblici e dell’economia reale, facendo coincidere, ha puntualizzato la cancelliera tedesca, «stabilità e solidarietà».
In realtà Eurolandia e l’Ue nel suo complesso si sono già mosse: il fondo da 750 miliardi per soccorrere i Paesi più esposti finanziariamente è stato un segnale forte. Dopodiché giunge il tempo di provvedimenti concreti per tenere sotto controllo i conti statali, per rintuzzare gli attacchi speculativi verso i titoli pubblici, agendo al medesimo tempo per dare respiro all’economia reale (credito alle imprese, investimenti, sostegno all’occupazione, crescita dei consumi). È il classico caso della “quadratura del cerchio”.
Il tutto avviene in un clima di accresciute tensioni politiche: quando si parla di tagli, di rigore, di provvedimenti più o meno imposti, c’è sempre chi vorrebbe premere sull’acceleratore, chi si barcamena tra mille prudenze, chi vorrebbe rimandare sempre ogni decisione. La stessa Merkel, che aveva definito il piano da 750 miliardi come «un espediente per guadagnar tempo», è stata duramente apostrofata dal presidente dell’Eurogruppo, il lussemburghese Jean-Claude Juncker, personaggio solitamente molto posato: «La Merkel pensi prima di parlare».
Sul versante politico ed economico sono intanto allo studio varie linee d’azione: si sta pensando a un “aggiornamento” del Patto di stabilità e crescita (la “sentinella” della stabilità di Eurolandia), con criteri finalmente vincolanti per quanto riguarda il deficit e il debito pubblico degli Stati che adottano la moneta unica. Ma si tratterebbe di buone regole di gestione valide per tutti i Paesi comunitari. Nel frattempo i Paesi più “traballanti” vengono indirizzati a immediate misure d’intervento: oltre alla Grecia, si tratta per ora di Spagna e Portogallo, benché la lista potrebbe allungarsi visto che in Europa nessun Paese può vantare bilanci e conti in regola. Tagli alla spesa per le pubbliche amministrazioni, revisione dei sistemi previdenziali, riforme dei mercati del lavoro, imposizione fiscale… Ogni strada è buona – almeno sul piano del rigore – per agire.
È chiaro che, con una situazione recessiva di tale portata, vengono al pettine una serie di nodi che dovranno essere tenuti ugualmente presenti al momento di assumere decisioni impopolari, perché queste stesse avranno ricadute sui cittadini, facendo emergere il rischio di forti tensioni sociali, e sulle imprese, mettendo in forse la ripresa. Il rigore dei conti, che comunque va perseguito, non dovrebbe infatti frenare gli investimenti produttivi, la competitività o la ricerca, considerando inoltre l’impegno a creare posti di lavoro (i disoccupati nell’Ue sono ben oltre 20 milioni; un giovane su quattro è disoccupato) e a non smantellare i sistemi di welfare, i quali possono essere ripensati senza peraltro mettere a repentaglio la coesione sociale e territoriale. Una quadratura del cerchio, appunto.
Tutto ciò richiederà una grande capacità delle classi politiche, nazionali ed europea: sia nello scrivere le “regole” sia, e più ancora, nel farle rispettare (ciò che non è avvenuto in passato). Una importanza strategica riveste il coinvolgimento dei cittadini e delle opinioni pubbliche, perché certi provvedimenti “lacrime e sangue” peseranno sui lavoratori, sulle famiglie, sulle fasce sociali più povere: se non si vuole giungere alle rivolte di piazza appena registrate ad Atene, sarà opportuno favorire atteggiamenti di condivisione, convincimento e coinvolgimento.
Infine – ma non è l’ultimo degli argomenti – c’è da attendersi che da questa nuova grande crisi prenda forma un’Europa differente. Non a caso quasi tutte le voci sulla scena continentale hanno invocato una maggiore governance e qualche forma di coordinamento delle politiche economiche a livello europeo. I tempi di crisi lasciano sempre strascichi negativi, ma nella storia dell’integrazione in genere essi portano a significativi passi in avanti della costruzione comunitaria. Se le parole hanno un senso compiuto e condiviso, al di là delle differenze linguistiche, ciò che si prospetta per l’Europa è una lunga fase di sacrifici, dopo che ci si è finalmente resi conto che la crisi economica non è affatto passata. Quegli analisti e quei politici che già alcuni mesi fa erano convinti che fossimo usciti dal tunnel raccontavano una realtà inesistente. La crisi partita dagli Stati Uniti due anni orsono ha investito il vecchio continente su tutti i fronti: produttivo, occupazionale e, naturalmente, finanziario. Ora – non è mai troppo tardi – è giunto il momento della resa dei conti e dei provvedimenti risolutivi, i quali prevedono, appunto, tagli e sacrifici. Lo ha spiegato, tra gli altri, con estrema chiarezza Angela Merkel: «Ci aspetta una dura austerità». La crisi greca obbliga ad agire sul fronte dei conti pubblici e dell’economia reale, facendo coincidere, ha puntualizzato la cancelliera tedesca, «stabilità e solidarietà».In realtà Eurolandia e l’Ue nel suo complesso si sono già mosse: il fondo da 750 miliardi per soccorrere i Paesi più esposti finanziariamente è stato un segnale forte. Dopodiché giunge il tempo di provvedimenti concreti per tenere sotto controllo i conti statali, per rintuzzare gli attacchi speculativi verso i titoli pubblici, agendo al medesimo tempo per dare respiro all’economia reale (credito alle imprese, investimenti, sostegno all’occupazione, crescita dei consumi). È il classico caso della “quadratura del cerchio”.Il tutto avviene in un clima di accresciute tensioni politiche: quando si parla di tagli, di rigore, di provvedimenti più o meno imposti, c’è sempre chi vorrebbe premere sull’acceleratore, chi si barcamena tra mille prudenze, chi vorrebbe rimandare sempre ogni decisione. La stessa Merkel, che aveva definito il piano da 750 miliardi come «un espediente per guadagnar tempo», è stata duramente apostrofata dal presidente dell’Eurogruppo, il lussemburghese Jean-Claude Juncker, personaggio solitamente molto posato: «La Merkel pensi prima di parlare».Sul versante politico ed economico sono intanto allo studio varie linee d’azione: si sta pensando a un “aggiornamento” del Patto di stabilità e crescita (la “sentinella” della stabilità di Eurolandia), con criteri finalmente vincolanti per quanto riguarda il deficit e il debito pubblico degli Stati che adottano la moneta unica. Ma si tratterebbe di buone regole di gestione valide per tutti i Paesi comunitari. Nel frattempo i Paesi più “traballanti” vengono indirizzati a immediate misure d’intervento: oltre alla Grecia, si tratta per ora di Spagna e Portogallo, benché la lista potrebbe allungarsi visto che in Europa nessun Paese può vantare bilanci e conti in regola. Tagli alla spesa per le pubbliche amministrazioni, revisione dei sistemi previdenziali, riforme dei mercati del lavoro, imposizione fiscale… Ogni strada è buona – almeno sul piano del rigore – per agire.È chiaro che, con una situazione recessiva di tale portata, vengono al pettine una serie di nodi che dovranno essere tenuti ugualmente presenti al momento di assumere decisioni impopolari, perché queste stesse avranno ricadute sui cittadini, facendo emergere il rischio di forti tensioni sociali, e sulle imprese, mettendo in forse la ripresa. Il rigore dei conti, che comunque va perseguito, non dovrebbe infatti frenare gli investimenti produttivi, la competitività o la ricerca, considerando inoltre l’impegno a creare posti di lavoro (i disoccupati nell’Ue sono ben oltre 20 milioni; un giovane su quattro è disoccupato) e a non smantellare i sistemi di welfare, i quali possono essere ripensati senza peraltro mettere a repentaglio la coesione sociale e territoriale. Una quadratura del cerchio, appunto.Tutto ciò richiederà una grande capacità delle classi politiche, nazionali ed europea: sia nello scrivere le “regole” sia, e più ancora, nel farle rispettare (ciò che non è avvenuto in passato). Una importanza strategica riveste il coinvolgimento dei cittadini e delle opinioni pubbliche, perché certi provvedimenti “lacrime e sangue” peseranno sui lavoratori, sulle famiglie, sulle fasce sociali più povere: se non si vuole giungere alle rivolte di piazza appena registrate ad Atene, sarà opportuno favorire atteggiamenti di condivisione, convincimento e coinvolgimento.Infine – ma non è l’ultimo degli argomenti – c’è da attendersi che da questa nuova grande crisi prenda forma un’Europa differente. Non a caso quasi tutte le voci sulla scena continentale hanno invocato una maggiore governance e qualche forma di coordinamento delle politiche economiche a livello europeo. I tempi di crisi lasciano sempre strascichi negativi, ma nella storia dell’integrazione in genere essi portano a significativi passi in avanti della costruzione comunitaria.