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Bioetica

Eutanasia, il momento dei bilanci

Il terribile caso inglese e la parola della Chiesa

Marco DOLDI Redazione

11 Settembre 2009

Mentre in Italia prosegue l’iter parlamentare per giungere all’approvazione della legge sul “fine vita”, dalla Gran Bretagna è giunta una notizia a dir poco allarmante. Un gruppo di medici britannici, specializzati in cure palliative, ha denunciato una serie di autentici attentati contro la vita e contro la deontologia professionale, che sarebbero stati perpetuati da alcuni ospedali. Secondo i medici, i malati in fin di vita o giudicati in gravissime condizioni sarebbero stati abbandonati a se stessi fino a morire di fame, privati di acqua e cibo e sedati in attesa della fine. E il loro numero è altissimo.
Gli ospedali in questione seguirebbero alcune direttive introdotte dal sistema sanitario nazionale (Nhs), secondo le quali ai malati terminali è possibile togliere idratazione e medicine, per poi lasciarli sotto sedativi fino alla morte. Questo senza considerare più eventuali segni di miglioramento. Far morire per sete e per fame, abbandonati a se stessi e, talvolta, tra sofferenze: questo si chiama eutanasia. È il volto assolutamente tragico di una scelta che molti vorrebbero far passare come progresso, mentre è solo un’atrocità. Tutto questo avviene quando si supera – in nome di una falsa laicità – il principio della sacralità della vita umana.
I tragici risultati cui sono giunti altri Paesi europei suonano come un monito per chi “gioca” a scalfire un principio cardine della nostra cultura: l’indisponibilità della vita umana. C’è chi lo fa per farsi un nome, c’è chi lo fa per fini politici, c’è chi lo fa pensando di essere innovatore. È il momento di riflettere: che cosa significa dare a sé stessi e agli altri una morte degna? Significa che nessuno è abbandonato alla solitudine, significa che non si praticano su di lui terapie inutili, gravose e sproporzionate. Significa che si ha cura di lui, assicurandogli acqua e cibo, igiene, normale assistenza. Se, invece, si sospendesse l’alimentazione o l’idratazione, il paziente morirebbe. L’eutanasia non potrà mai essere accettata perché è un volto del delitto dell’omicidio o del suicidio. Mentre in Italia prosegue l’iter parlamentare per giungere all’approvazione della legge sul “fine vita”, dalla Gran Bretagna è giunta una notizia a dir poco allarmante. Un gruppo di medici britannici, specializzati in cure palliative, ha denunciato una serie di autentici attentati contro la vita e contro la deontologia professionale, che sarebbero stati perpetuati da alcuni ospedali. Secondo i medici, i malati in fin di vita o giudicati in gravissime condizioni sarebbero stati abbandonati a se stessi fino a morire di fame, privati di acqua e cibo e sedati in attesa della fine. E il loro numero è altissimo.Gli ospedali in questione seguirebbero alcune direttive introdotte dal sistema sanitario nazionale (Nhs), secondo le quali ai malati terminali è possibile togliere idratazione e medicine, per poi lasciarli sotto sedativi fino alla morte. Questo senza considerare più eventuali segni di miglioramento. Far morire per sete e per fame, abbandonati a se stessi e, talvolta, tra sofferenze: questo si chiama eutanasia. È il volto assolutamente tragico di una scelta che molti vorrebbero far passare come progresso, mentre è solo un’atrocità. Tutto questo avviene quando si supera – in nome di una falsa laicità – il principio della sacralità della vita umana.I tragici risultati cui sono giunti altri Paesi europei suonano come un monito per chi “gioca” a scalfire un principio cardine della nostra cultura: l’indisponibilità della vita umana. C’è chi lo fa per farsi un nome, c’è chi lo fa per fini politici, c’è chi lo fa pensando di essere innovatore. È il momento di riflettere: che cosa significa dare a sé stessi e agli altri una morte degna? Significa che nessuno è abbandonato alla solitudine, significa che non si praticano su di lui terapie inutili, gravose e sproporzionate. Significa che si ha cura di lui, assicurandogli acqua e cibo, igiene, normale assistenza. Se, invece, si sospendesse l’alimentazione o l’idratazione, il paziente morirebbe. L’eutanasia non potrà mai essere accettata perché è un volto del delitto dell’omicidio o del suicidio. Un grave disordine morale La Chiesa rifiuta l’eutanasia, perché proibita dal comandamento “non uccidere”; lo ha autorevolmente insegnato Giovanni Paolo II: «In conformità con il Magistero dei miei Predecessori e in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l’eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana» (Evangelium Vitae 65). La dottrina della Chiesa si fonda sulla legge naturale, che proibisce l’uccisione del prossimo, e sulla Parola di Dio, quella scritta, quella trasmessa dalla Tradizione vivente, quella insegnata dal Magistero ordinario e universale del Papa e dei vescovi.Le parole di Giovanni Paolo II stabiliscono in modo chiaro una verità, che non è periferica, ma centrale per il credere e per l’appartenere alla Chiesa. L’eutanasia è un grave disordine morale: questa non è un’opinione, ma è dottrina della Chiesa. Siamo davanti a una verità “fondamentale” del Credo cristiano, nel senso che il rispetto incondizionato per la vita, espresso dal “non uccidere” è fondamento irrinunciabile.Dall’osservanza del comandamento parte “un cammino di vera libertà, che – sono ancora parole di Giovanni Paolo II – ci porta a promuovere attivamente la vita e sviluppare determinati atteggiamenti e comportamenti al suo servizio: così facendo esercitiamo la nostra responsabilità verso le persone che ci sono affidate e manifestiamo, nei fatti e nella verità, la nostra riconoscenza a Dio per il grande dono della vita” (Evangelium Vitae 76).Tutti i comandamenti di Dio insegnano la via della libertà. Quelli che dichiarano moralmente inaccettabile la scelta di una determinata azione, ricoprono valore assoluto: valgono sempre e comunque, senza eccezioni. Molte volte taluni producono una casistica interminabile, che gioca sulla emotività delle persone, per ammettere almeno un’eccezione. No, la soluzione a casi concreti e delicati va cercata in un’altra prospettiva: quella della carità nella verità. Soluzioni ragionevoli davanti a casi difficili sono quelle che scaturiscono da tutti i saperi: dalla medicina ma anche dall’antropologia e dall’etica.È urgente realizzare quella sapienza, cui richiama Benedetto XVI, frutto di una visione integrale dell’uomo, che “rispecchi i vari aspetti della persona umana, contemplata con lo sguardo purificato dalla carità” (Caritas in veritate 32).