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«In India ci attaccano perché vicini ai poveri»

La repressione dei cristiani nella testimonianza di padre Antonio Grugni, missionario del Pime. Da 32 anni vive lì, dove dirige un centro medico ai confini con lo Stato dell'Orissa: «Cause politiche ed economiche le motivazioni nascoste dietro le recenti violenze»

8 Settembre 2008

08/09/2008

di Filippo MAGNI

Cause politiche ed economiche. Sono queste, secondo padre Antonio Grugni, le motivazioni nascoste dietro ai recenti attacchi subiti dai cristiani in Orissa, Stato del sud dell’India, che hanno portato alla morte di cinque persone e alla distruzione di migliaia di case. Il sacerdote, che incontriamo nella sua abitazione di Legnano («dove torno non più di un mese all’anno»), è un profondo conoscitore dell’India, oltre che appassionato di quel Paese così complesso.

E non potrebbe essere altrimenti, dato che proprio lì padre Antonio, allora 35enne cardiologo collaboratore del Pime, ha scoperto la propria strada e intuito la propria vocazione sacerdotale. Classe 1941, padre Grugni ha trascorso metà della propria vita nel subcontinente indiano: 32 anni tra Bombay e l’Andhra Pradesh, Stato confinante con l’Orissa, dove oggi dirige un centro «per la riabilitazione medica e socioeconomica dei malati di lebbra, tubercolosi e aids».

«La situazione dei cattolici in India – esordisce – è complessa: basti pensare che rappresentano l’1% della popolazione in uno Stato di oltre un milione di persone. La situazione di minoranza è evidente».

Perché questo 1% sembra essere diventato così scomodo per frange della società indiana?
Soprattutto per l’opera di promozione sociale che i cristiani effettuano da anni: ci occupiamo delle fasce più basse della popolazione, i fuori casta, i lebbrosi e i tribali, gruppi di indiani che abitano le foreste, totalmente separati dalla società. Questo dà fastidio a qualcuno, soprattutto a chi desidera mantenere immutato l’ordine sociale. Non è un caso che le violenze siano scoppiate in Orissa, dove i fuori casta sono quasi il 40% della popolazione. A questo va aggiunta una nuova ondata nazionalista, ad opera del partito Bjp.

I cristiani si scontrano con i partiti politici?
In realtà no; per esempio, nello Stato dove risiedo io, il potere è detenuto dal Congresso, partito di Sonia Ghandi, e non ci sono mai stati problemi di violenze ai cristiani. Ma in vista delle elezioni nazionali del prossimo anno c’è chi vuole giocare con le passioni delle persone, e le passioni più forti, in India, sono quelle religiose.

Al di là della politica, l’accusa è anche quella di proselitismo, di forzare le conversioni alla fede cristiana in cambio di aiuti e assistenza…
In India c’è quasi identità tra essere induisti e essere indiani. Così ogni conversione è vista come un tradimento alla nazione, e non come un fatto privato di fede. Questo non succede solo con i cristiani, ma anche con i musulmani e, come spiegavo prima, ci sono alcuni partiti politici che infiammano gli animi di alcuni giovani violenti “in difesa dell’India”, nel nome di una nuova identità nazionale.

Qual è, invece, il rapporto tra la Chiesa cattolica in India e gli indiani?
Facciamo una grande fatica a inculturarci. Siamo visti ancora come la religione “degli occidentali” e “dei bianchi”, dei colonialisti inglesi. È questo un pregiudizio duro a morire anche dopo 60 anni dall’indipendenza coloniale. E la Chiesa a mio avviso non si sta adoperando abbastanza per entrare nella cultura indiana: possediamo grandi scuole, università, ospedali, e gli indiani si chiedono cosa cerchiamo, perché investiamo tanto denaro se non vogliamo nulla in cambio, non si fidano e temono un nuovo colonialismo. Dovremmo invece cercare una maggiore integrazione. Sia però chiaro che questo è solo uno stimolo alla riflessione, non certo una scusante alle violenze subite.

Quale la strada?
Quella di tornare a essere poveri tra i poveri, trovando, come chiedeva Giovanni Paolo II nel 1999, strade «nuove ed efficaci». Nello stile di madre Teresa di Calcutta, molto rispettata in India nonostante la sua forte identità religiosa perché ha sempre anteposto i fatti ai grandi discorsi. Tanto che ancora oggi, se i vescovi indiani vogliono organizzare eventi, devono usare l’immagine della Santa se vogliono essere ascoltati. Abbiamo bisogno di profeti come lei e come Ghandi, persone in grado di avere uno sguardo a lunga distanza per aiutare l’India e vivere nella pace.