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Il Tibet e la Cina: «Come Davide contro Golia»

Gli scontri a Lhasa e la repressione dell'esercito di Pechino nell'analisi di padre Augusto Luca, missionario saveriano, esperto dell'Estremo Oriente

5 Giugno 2008

18/03/2008

a cura di Patrizia CAIFFA

«Bisogna attendere con pazienza i cambiamenti della Cina e augurarsi che il popolo tibetano stia calmo. Perché non si fa una rivoluzione se non c’è almeno una speranza di vincere, e questi non sono i tempi e i modi adatti per una rivolta. È Davide contro Golia. Come può fare un piccolo popolo come quello tibetano, di fronte a milioni di soldati?».

Èil parere di padre Augusto Luca, missionario saveriano per 15 anni in Giappone e studioso di storia delle missioni in Asia. Di recente ha scritto un libro su padre Ippolito Desideri (1684-1733), il primo “tibetologo” europeo. Intanto, dopo gli scontri con la polizia iniziati venerdì scorso a Lhasa, capitale della provincia autonoma del Tibet, si parla già di centinaia di morti, mentre il bilancio ufficiale si ferma a 13 vittime, con decine di feriti e 300 edifici dati alle fiamme.

A 50 anni dall’occupazione cinese il Tibet è in rivolta. Cosa ne pensa?
Bisogna vedere la storia per capire. Il Tibet è sempre stato un protettorato cinese. Anche il Dalai Lama è una creazione delle dinastie mongole. Nel 1729-30 la Cina ha occupato il Tibet, finché non sono arrivati gli inglesi. Per cui i cinesi accampano un diritto antico. Solo che allora lasciavano ai governanti una certa autonomia di costumi e tradizioni, mentre ora cercano di occupare il Tibet con personale cinese, distruggendo l’antica cultura tibetana. L’occupazione cinese del Tibet negli anni Cinquanta, e poi nel ’65-’66 con la rivoluzione culturale, ha distrutto templi, monasteri, opere d’arte e ucciso oltre un milione di persone.

Cosa pensa della repressione violenta da parte del governo cinese?
Forse è stato sbagliato il momento dell’insurrezione, proprio alla vigilia dei Giochi olimpici, che sono una finestra aperta sul mondo. Perché in questo periodo la Cina farà ovunque una repressione forte. Più che del Tibet, che non è mai stata una popolazione guerriera, la Cina ha paura delle insurrezioni delle regioni abitate dai musulmani cinesi e di attentati terroristici durante le Olimpiadi. Se si fa una rivoluzione adesso non ci può essere che una repressione, dal punto di vista politico. In un periodo diverso, senza gli occhi di tutto il mondo addosso, ci sarebbe potuto essere qualche spazio di trattativa, ma ora sarà difficile.

Perché?
La Cina è una riunione di popoli sempre in tensione per la paura di disgregarsi. Conserva ancora l’autoritarismo dei dittatori, perché ha timore delle insurrezioni locali. Spero che i tibetani si calmino. Approvo la posizione del Dalai Lama che non chiede l’indipendenza, ma l’autonomia culturale, come è stato per tanti secoli. Sarebbe augurabile che non insistessero in una rivolta che verrà in tutti i casi repressa con la forza. Non è stato il momento giusto, né il modo adatto. Il Dalai Lama vuole il dialogo per arrivare in pace a questa forma di autonomia, culturale e religiosa.

Però il Dalai Lama dice di non poter intervenire per fermare le violenze e il movimento di popolo…
Per un leader spirituale è difficile riuscire a fermare le violenze. Basta vedere Gandhi: una volta ottenuta l’indipendenza senza violenza, è scoppiata la violenza tra India e Pakistan, con milioni di morti da entrambe le parti.

E il governo cinese non sembra oggi intenzionato a fare concessioni, nonostante sei conferenze bilaterali dal 2002 a oggi. Pensa che prima o poi si risolverà la questione del Tibet, in maniera seria e pacata?
Su queste cose ci vuole molto tempo. Penso di sì. Prima o poi dovranno ritornare all’antica mentalità della Cina: un impero con tante nazioni diverse. Mi auguro che le cose si calmino e piano piano si arrivi a trattative e a un’autonomia culturale del Tibet. La Cina si sta evolvendo, ma piuttosto lentamente. I cinesi hanno una mentalità diversa. I cristiani mettono al centro la persona umana. I cinesi la società, alla quale sacrificano tutto. Il fatto che la Cina venga in contatto con l’Europa e l’America indubbiamente farà cambiare la mentalità, ma ci vuole molto tempo. Stiamo assistendo a una rivoluzione della Cina, cominciata da un punto di vista economico, ma che sta avvenendo lentamente anche a livello culturale. Basta vedere quanti cinesi vengono a studiare in Occidente. Questo vuol dire che tra qualche decina d’anni la Cina si trasformerà, valorizzando le buone capacità che ha il popolo cinese, intelligente e laborioso. Era una civiltà molto più avanzata di noi, quindi è un popolo che ha un avvenire.

Alcuni lamentano il silenzio del Papa sulle vicende del Tibet. Che ne pensa?
Bisogna stare molto attenti. È un momento molto delicato anche per la Chiesa cattolica in Cina: è necessario capire cosa succede, conoscere bene le situazioni, altrimenti è meglio essere prudenti. Certo, in passato, quando ci sono state le grandi violenze, tutti avrebbero dovuto parlare di più, compresa la comunità internazionale. Ora la situazione è molto più difficile.