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Cina-Tibet, una fiaccola per la verità

In vista delle Olimpiadi di Pechino manifestazioni e proteste in tante città. Il parere di Grazia Bellini, coordinatrice della Tavola della Pace

5 Giugno 2008

11/04/2008

«Se un simbolo che deve rappresentare pace e armonia è lontano dalla realtà è ovvio che la gente manifesti per dire che è una falsità. Forse altri gesti simbolici più legati alla situazione reale sarebbero stati più efficaci»: èil parere di Grazia Bellini, coordinatrice della Tavola della Pace, a proposito dei cortei e delle proteste dei manifestanti pro-Tibet che stanno accompagnando in questi giorni il percorso della fiaccola olimpica in diverse città (Istanbul, Londra, Parigi, San Francisco…).

Il cammino verso le Olimpiadi di Pechino si fa sempre più complicato. Dopo che, tra i capi di Stato e di Governo, il primo ministro inglese Gordon Brown ha annunciato che non presenzierà alla cerimonia inaugurale dei Giochi, il Comitato Olimpico Internazionale sta valutando la possibilità di bloccare o meno la staffetta della fiaccola.

Ha senso far continuare il cammino della fiaccola olimpica?
È difficile dirlo. Quando si fanno manifestazioni simboliche così belle e importanti dovrebbe esserci un minimo di rispondenza con la realtà, altrimenti la gente ha voglia di dire che non è vero. È sempre più difficile fingere che ci siano eventi che non tengono conto della vita delle persone. È importante mantenere le relazioni con tutti perché è l’unico modo per chiedere la pace e la giustizia e per parlare per quelli che non possono parlare. Certo, c’è un equilibrio difficile da mantenere tra la necessità di dire quello che pensiamo e l’importanza di tenere aperto ogni spiraglio di comunicazione, per far arrivare voci di solidarietà e di attenzione.

Quindi il boicottaggio delle Olimpiadi sarebbe una scelta sbagliata…
Boicottare significa sbattere delle porte, manifestare il proprio dissenso è invece legittimo. Credo sia anche importante distinguere tra la critica a un governo e la critica a un popolo. Rispetto al Tibet, quello che noi stiamo oggi criticando fortemente sono le scelte del governo cinese, non i cinesi o la Cina.

C’è chi accusa di strumentalizzare lo sport, chi esulta per l’indignazione in atto e chi invoca invece l’etica delle responsabilità e del pragmatismo…
Bisogna avere presenti gli uomini e le donne. Se in un luogo non hanno diritto di parola o non hanno diritto alla vita, alla pace o alla giustizia, gli altri se ne devono far carico. E non si può far finta che questo non esista. Un pragmatismo vero e non pretestuoso dovrebbe tener conto di tutte le dimensioni della vita. Nello stesso tempo dovremmo anche riflettere sui diritti alla parola e all’informazione, che noi abbiamo e altri no. Perciò abbiamo anche la responsabilità di usare questi diritti non pensando solo al nostro Paese.

Come si può dialogare, in materia di diritti umani, con la cultura cinese, che ha paradigmi e modi di pensare molto specifici?
Ci sono molte culture distanti e diverse da quelle occidentali. Bisogna mantenere aperto lo scambio e la possibilità di parlare, sia nei rapporti con gli immigrati sul nostro territorio, sia nei rapporti con i Paesi. La volontà di stabilire un dialogo può anche fornire i paletti giusti. Dobbiamo interrogarci su quanto abbiamo realmente voglia di stabilire ponti nuovi e di trovare un modo per riuscire a capirci e a scambiare. Ognuno può mantenere i propri giudizi, però si può fare una strada per negoziare significati comuni e accordarsi su qualcosa.