Una popolazione che invecchia, dove la depressione è il problema di salute mentale più diffuso – in tutte le fasce d’età – mentre permangono disuguaglianze sociali e territoriali. È la fotografia scattata dall’Istat con l’indagine “Tutela della salute e accesso alle cure”, presentata ieri a Roma. Ne parliamo con Walter Ricciardi, docente d’igiene all’Università Cattolica del Sacro Cuore e direttore del Dipartimento di sanità pubblica del Policlinico Gemelli di Roma.
L’invecchiamento della popolazione, per l’Italia, non è una novità. Cosa comporta questo trend?
«Già nel 2000 l’Istat aveva segnalato come l’Italia avesse un record mondiale per “rapporto di dipendenza” tra giovani e vecchi. Questo superamento – di difficile sostenibilità – dei vecchi sui giovani che noi già sperimentiamo, la Francia l’avrà nel 2035, gli Usa nel 2050, l’Indonesia nel 2070 e gli Emirati Arabi nel 2090. Noi, invece, il problema l’abbiamo adesso ed è in continua crescita: la gente invecchia, diventa non autosufficiente, e non ci sono abbastanza giovani che aiutino a mantenere il sistema. Dobbiamo affrontare la situazione non solo dal punto di vista sanitario, ma dell’intero governo: la salute è un tema trasversale».
Intanto Governo e Regioni hanno sottoscritto il Patto per la salute…
«Gli ultimi esecutivi hanno sostanzialmente ignorato la sostenibilità del sistema sanitario. Ora, finalmente, il Ministro della Salute si è dato da fare per consegnare un sistema sanitario nazionale alle nuove generazioni. Questo, perlomeno, è l’auspicio; di sicuro il fatto di avere per tre anni certezze di finanziamento dovrebbe aiutare Stato e Regioni ad affrontare il fenomeno. D’altra parte, con la revisione costituzionale ora l’organizzazione dei servizi sanitari passerà integralmente alle Regioni, e quindi la situazione potrebbe diventare ancora più diseguale».
Sempre l’Istat ci dice di un calo della spesa per visite mediche e medicinali. Le famiglie non ce la fanno più a curarsi?
«Quando si deve scegliere se comprare cibo o medicine, la gente rinuncia a curarsi. Non dimentichiamo che ci sono 4 milioni di famiglie sotto la soglia di povertà. È drammatico che questo accada in Italia nel 2014…».
Il sistema sanitario dovrebbe permettere ai meno abbienti di curarsi senza spesa. Eppure ci sono diversi farmaci – di fatto essenziali per certe malattie – che, invece, vanno pagati per intero…
«Finora la politica farmaceutica è stata caratterizzata unicamente per un’attenzione agli aspetti finanziari, mentre c’è una questione di gestione. Occorre regolare l’intero processo assistenziale, non basta determinare il prezzo dei farmaci. Ad esempio, gli anziani in dialisi oggi devono pagarsi di tasca loro – in alcune regioni – buona parte dei medicinali, mentre la dialisi viene garantita gratuitamente dal sistema sanitario. Invece bisogna vedere globalmente cosa serve per curare l’insufficienza renale cronica – per restare all’esempio – e poi agire di conseguenza, garantendo le cure a chi ha poche risorse».
Nei giorni scorsi il Censis ha rilevato «una domanda inevasa di cure e di assistenza cui il sistema pubblico non riesce a fare fronte» – il 73% delle famiglie italiane ha fatto ricorso almeno una volta negli ultimi due anni a visite specialistiche o a esami diagnostici a pagamento – chiedendo di «integrare gli strumenti di welfare pubblici e privati». Cosa fare per avere un’assistenza in grado di garantire la salute di tutti?
«Siamo di fronte a un cambiamento epocale. Al di là degli steccati ideologici, l’integrazione tra pubblico e privato è l’unica strada. Questo non significa smantellare alcun sistema, ma ritararlo in modo che il pubblico possa gestire e controllare, mentre nell’erogazione dei servizi coesistono pubblico e privato. Nessun sistema sanitario nazionale può permettersi di dare assistenza a tanti cittadini anziani e non autosufficienti se non attiva questa leva».
E chi paga? Il singolo cittadino, lo Stato o altri?
«Si tratta di attivare un sistema misto, nel quale la tassazione generale garantisce la base, poi ci sono fondi pubblici e privati integrativi, che possono essere attivati da associazioni di carattere professionale – fondi pensione, di categoria -, o anche strutture private che vedono in questo settore un business etico, il cui obiettivo non è fare soldi, ma produzione, risolvendo al tempo stesso un problema al Paese. In Francia e in Germania, ad esempio, è già così».