Nel 2014, volenti o nolenti, a finire in cassa integrazione sarà proprio la… cassa integrazione. Quella ordinaria è sì foraggiata dalle imprese, ma ormai la quantità di prestazioni erogate supera di gran lunga i fondi esistenti. Quella in deroga, poi, è al collasso. Pagata dalla fiscalità generale, deve far fronte a centinaia di migliaia di situazioni di difficoltà (e si fa fatica pure a conoscere il vero numero di persone beneficiarie dell’indennità). Concessa dalle Regioni e foraggiata dallo Stato, sta mandando in tilt il Governo stesso, costretto ogni tre mesi a trovare ingenti somme per pagare addirittura gli arretrati maturati. Una delle ragioni per cui le varie “manovre” fatte nel 2013 faticavano sempre a trovare una copertura: e i soldi per la Cig dove li troviamo?
L’Italia è l’unico Paese ad usare questo ammortizzatore sociale per chi rischia di perdere il posto di lavoro. Uno strumento diventato ormai una babele di norme, di eccezioni alla regola, di casi particolari, di tutele più o meno lunghe. Ottimo per i casi di temporanea difficoltà aziendale (“alleggerisce” gli stipendi da pagare), pessimo come metodo per permettere di ricollocarsi o quand’è usato come lunga via d’uscita dal posto di lavoro morto. Non esiste in Italia una valida macchina pubblica che aiuti i disoccupati a ricollocarsi o a riqualificarsi; ricevere per anni una discreta indennità non è per nulla di stimolo a trovare una nuova occupazione.
Storie vecchie, che la crisi ha contribuito a far esplodere e che la riforma Fornero aveva deciso di cambiare radicalmente con l’introduzione dell’Aspi, l’assicurazione sociale per l’impiego, che mira a mettere ordine nella giungla normativa, ad allargare la base dei tutelati (disparità che oggi crea gravi ingiustizie), ad incentivare la ricerca di un nuovo posto tagliando progressivamente l’assegno erogato.
Aspi e Cig si incroceranno, con la seconda che ha bisogno ancora di soldi e con la prima che comunque costerà più di ora. Ma qui stiamo parlando di materassi, per quanto costosi; il vero problema è mettere benzina all’economia, quindi all’occupazione. E si deve partire dallo smettere di pensare che il futuro sarà come il passato.
L’Italia è fondata sul lavoro subordinato a tempo indeterminato e regolato dalla contrattazione collettiva, stava scritto in filigrana nella “costituzione” materiale che per decenni ha governato l’economia italiana. Quando questo principio ha progressivamente perso fiato, è esplosa una precarizzazione del lavoro che ha creato due mondi: i “protetti”, arroccati nel precedente regime di diritti e doveri; e chi stava fuori da quel fortino. Un gruppo diventato nel corso degli anni un esercito, composto soprattutto dai giovani.
Qui è mancata la lungimiranza del legislatore nel riscrivere la nuova “costituzione” del lavoro. Si è cercato di tamponare le falle (legge Biagi, riforma Fornero, frammentazione della contrattazione collettiva) usando sempre gli occhiali dell’ideologia, fosse quella liberista dell’ognun per sé, oppure quella “cigiellina” del bellissimo quanto impossibile: più diritti per tutti. Nessuno al mondo potrebbe altrimenti comprendere come mai l’Italia sia stata schiacciata per anni dal dibattito sull’articolo 18 dello Statuto, che la crisi economica ha spazzato in un amen.
Guardiamoci attorno, cerchiamo di scegliere il meglio e cambiamo quanto ormai è obsoleto, ingiusto, assurdo. In Germania c’è poca disoccupazione perché 8 milioni di posti di lavoro sono pagati 450 euro al mese: sono lavori poco o nulla qualificati, la paga è quella che è ma lo sfruttamento in “nero” italiano non ha nulla di buono da insegnare. In Olanda c’è molta occupazione anche perché c’è tantissimo part time: molto utilizzato dalle donne per conciliare lavoro con famiglia, ma qui non si può nemmeno pensare, altrimenti si commette reato. In Spagna lo Stato ha tagliato i dipendenti pubblici, ma sono state poste le condizioni affinché gli investitori trovino conveniente lavorare lì, assumere, rilanciare l’economia. Così sta accadendo.
Ecco, ora è tempo di fare anche in Italia le cose che devono essere fatte. Contratti di lavoro con minori tutele, con stipendi magari più bassi ma in regola. Contratti differenziati a livello territoriale: non per punire il Sud, ma per dargli qualche chance di nuova occupazione. Un incentivo pubblico ai welfare aziendali, preziosi come un aumento di stipendio e vantaggiosi per tutti, Stato compreso. Il coraggio di liberarsi delle mele marce che i “diritti” li sfruttano tutti per non lavorare o per farlo malissimo, negando spazio a chi ha bisogno e ha buona volontà. La scelta di puntare su uno strumento giuridico – la cooperazione – che non mette al primo posto la remunerazione del capitale investito, ma il lavoratore…
In realtà queste sono piccole cose, fattibili domani; ci vogliono pure quelle grandi (una riforma della pubblica amministrazione che costi meno e produca meglio; il taglio degli enormi sprechi pubblici; il cambiamento radicale del sistema di istruzione e formazione dei nostri figli; leggi fiscali che aiutino chi inizia, non soffochino chi lavora bene, non incoraggino ad evadere a tutto spiano) se veramente vogliamo costruirci un futuro migliore del presente.