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Capolavori

Segni e colori del sacro in Valsolda

La parrocchiale di San Martino a Castello presenta lo splendido ciclo pittorico realizzato da Paolo Pagani alla fine del Seicento. Ma tutto il territorio, che fu feudo dei vescovi di Milano dall'età carolingia agli Asburgo, conserva uno straordinario patrimonio storico e artistico da scoprire e conoscere. Un nostro breve itinerario, che culmina nel bel santuario della Madonna della Caravina affacciato sul Lago di Lugano.

di Luca FRIGERIO

18 Agosto 2019

La “Sistina” di Lombardia? Si trova in Valsolda, fiera enclave ambrosiana al confine con la Svizzera, già teatro di quel “piccolo mondo antico” malinconicamente cantato dal Fogazzaro. A Castello, per la precisione, dove la severa parrocchiale di San Martino, affacciata sul Ceresio da una delle fitte alture che circondano il lago, conserva infatti un tesoro inaspettato, disteso sulle sue pareti e sulla volta, a costituire una delle meraviglie dell’epoca barocca nella nostra regione.

La chiesa ha origini antiche, come del resto il piccolo borgo di pietra che l’attornia, il cui nome ne ricorda ancor oggi il ruolo militare e strategico, nido d’aquila a dominare la zona. Ma il tempio attuale, così come appare, è di epoca borromaica, legato al ricordo di san Carlo, vescovo feudatario di tutta la valle, e a quello del suo cugino e successore Federico, di manzoniana memoria, che si spinse fin quassù per consacrarlo, nel 1602. All’epoca i fratelli Pozzi, nativi della vicina Puria, avevano da poco ornato l’edificio con deliziosi affreschi nel presbiterio, vicini per stile al linguaggio dei Procaccini, ma perfino con maggior esuberanza cromatica, con più smaccato gusto per una narrazione teatrale, come rivela la concitata gestualità degli apostoli e dei santi.

E tuttavia il meglio doveva ancora venire. Alla fine del secolo, cioè, quando, nella primavera del 1696, il pittore Paolo Pagani tornava nella sua Castello, quarantenne, dopo aver raccolto onori e successi in una lunga tournée che l’avevo portato in Austria, Germania, Moravia e Polonia, al servizio di principi, vescovi e imperatori.

Dovette allora pensare, il Pagani, a come lasciare un segno imperituro nel paese che gli aveva dato i natali, figlio orgoglioso di una terra generosa d’artisti, quella della Valsolda, appunto, distintisi al di qua e al di là delle Alpi, fino alla corte degli Zar, fin nelle città della Scandinavia. Quasi come un immenso ex voto di ringraziamento, nella chiesa dove aveva ricevuto il battesimo, e che infatti offriva gratuitamente e liberamente, impegnandosi anzi con il proprio patrimonio, lavorando alacremente per mesi, pressoché senza aiuti: proprio come il Buonarroti, quasi due secoli prima, sui ponteggi della Sistina…

Per meglio impaginare il suo sacro racconto, Paolo Pagani provvide innanzitutto a dare una nuova volta alla chiesa, correttamente illuminata da apposite finestre. Quindi vi distese la sua pittura, con andamento fluido e ininterrotto, scena dopo scena, senza interruzioni, senza cesure, come un unico grandioso affresco, appunto, dipinto di getto, dove ogni elemento è pienamente leggibile in sé, ma contribuisce alla costruzione del tutto. In una prospettiva celestiale bella come un sogno, autentica come la verità rivelata.

Stando sulla soglia della chiesa, così, alzando lo sguardo verso l’alto, dal lato sinistro si vedrà emergere innanzitutto la figura impetuosa del Battista, come issatosi, lui che è il Precursore, su un cumulo di corpi, vertice e culmine di quell’antichità che aveva annunciato la venuta del Messia, l’incarnazione del Verbo, nel mondo ebraico come in quello pagano, per bocca dei profeti come attraverso gli oracoli delle sibille. In una impostazione che è barocca, barocchissima, certo, ma che conserva ancora l’impronta possente degli ignudi michelangioleschi, e la medesima visione della storia della Salvezza.

Sulla destra, invece, ecco stagliarsi le figure delle tre martiri, Apollonia, Lucia e Caterina d’Alessandria, peculiarmente venerate in questa porzione del Lago di Lugano, qui rese dal Pagani come eroine della fede nel candore delle loro carni verginali. Nulla possono contro di loro gli infernali strumenti di tortura, né le vince la cieca giustizia degli uomini, dove anzi ogni colpo, ogni umiliazione inflitta alle giovani sante segna il loro trionfo.

Così, come in un turbine di vento e di fuoco, in una potente immagine biblica, le martiri vengono rapite in cielo, precedute dalla Vergine stessa, assunta al cospetto della Trinità e di tutti i santi. Ed è questa proprio il cuore dell’intera composizione, come un’invocazione a Maria che ancor oggi ci commuove ed esalta.

Un itinerario ambrosiano nel Ceresio
La ritrosa bellezza della Valsolda e del lago attorno a Porlezza si svela a quanti salgono quassù a ritrovare chiese e cappelle, borghi e nobili dimore, costeggiando in basso il Ceresio o salendo in alto per le selve boschive. In una continua sorpresa di fragili meraviglie, come incantate in un silenzio che oggi, purtroppo, a volte ha anche il sapore della solitudine. E che tuttavia resistono, e raccontano.

Si propone qui un itinerario fra antichi e sacri edifici, semplice e coerente, ma non certo esaustivo, che in realtà può essere compiuto anche in occasioni e tempi diversi. Con solo qualche cenno, fugaci impressioni e suggestioni durature, per luoghi e per testimonianze artistiche che meriterebbero ben altra trattazione e più generosa illustrazione. Ma con il desiderio di instillare almeno un po’ di curiosità e di stupore…

Si può partire dalla chiesa dell’Annunciazione ad Albogasio Inferiore (già a metterci sull’avviso, così, di un’altra Albogasio, posta più a monte). Fiera della propria avvenenza – la sua facciata è detta fra le più armoniose del territorio -, la parrocchiale sorge su un promontorio roccioso, offrendo dal sagrato profondi scorci sul Lago di Lugano e come dialogando, poco più a occidente, con il tempio vetusto di San Mamete, dall’intatto campanile romanico. L’interno è fastoso, pittoricamente gioioso. Merito di un Giovan Battista Pozzo qui in gran vena – siamo allo scoccare del XVIII secolo – che ha ricoperto le pareti della chiesa dell’Annunciazione con santi di serena grandezza e angeli sorridenti, nello svolazzare di putti dalla fanciullesca pinguedine.

La strada sale quindi a Castello, fiabesco abitato che ospita la chiesa di San Martino, la mirabile <Sistina> barocca della Valsolda firmata da Paolo Pagani, di cui si parla diffusamente nel testo qui a fianco.

Puria, più oltre, è il paese natio di Pellegrino Tibaldi, l’architetto scelto da san Carlo in persona per incarnare, anche nella pietra e nei volumi, il nuovo corso della Chiesa rinnovata dal Concilio di Trento. La chiesa di Santa Maria Assunta fu forse progettata da questo suo figlio illustre che, secondo la tradizione locale, ricco di glorie e di onori, proprio qui volle essere sepolto. Ma ancora una volta è la decorazione pittorica a estasiare lo sguardo. Pale d’altare e affreschi, in un’esuberanza di colori e di gesti che tracciano la parabola del miglior barocco lombardo di fine Seicento, portando la firma di un’altra dinastia di valenti artisti originari di quest’angolo del Ceresio, quella dei Pozzo. Il candore eburneo della martire Eurosia, pressata dai mori carnefici… L’ascetica preghiera del Borromeo dinnanzi al Santo Chiodo della croce di Cristo, che condusse per le vie appestate di Milano… L’incontro fra Anna e Gioacchino, trionfo dell’amore coniugale benedetto dal cielo… Opere splendide, incantevoli: minacciate dalla rovina, ma oggi provvidamente in corso di restauro.

Merita una puntata il minuscolo borgo di Drano, non fosse altro che dare un’occhiata all’oratorio dei Santi Innocenti, di una semplicità perfino commovente. Pregevole il secentesco paliotto in scagliola dell’altar maggiore, su quale si erge una pala che raffigura la gloria celeste di un fanciullo: che non è il Bambin Gesù, si badi, ma un’interessante testimonianza lombarda del culto di san Simonino, nato a Trento nel Quattrocento e che, per errore o per odio, costò nuovo sangue e nuova persecuzione alla comunità giudaica, accusata dell’orribile infanticidio…

Riscendendo verso il lago, a Loggio, nella parrocchiale di San Bartolomeo ritroviamo l’arte coloristica dei Pozzo: il corteo con il trionfo dell’Eucaristia è un tributo al genio di Rubens, dove, fra squilli di trombe e osanna, il carro della vera fede travolge i ciechi barbari dell’eresia… Appartata nel verde rispetto all’abitato, la chiesa ha masse architettoniche importanti, slanciate da una breve eppur duplice scalinata.

Il santuario della Caravina

Perla del Ceresio è il santuario della Madonna della Caravina, posto nel territorio di Cressogno, lungo la strada fra Lugano e Porlezza, in mezzo agli ulivi e ai cipressi, là dove il monte sembra protendersi sul lago quasi a contemplarne la severa bellezza. Ad accogliere quanti entrano nella Valsolda, terra che per oltre mille anni, dai tempi di Carlo Magno a quelli di Maria Teresa d’Austria, seppe reggersi libera e inviolata, sotto la custodia degli arcivescovi di Milano.

Qui l’11 maggio del 1562, in una cappella detta "alla Caravina" perché sorgeva accanto al terreno smosso da una frana ("sgravina", appunto), due pie donne videro piangere l’antica immagine della Madonna Addolorata, e altri eventi prodigiosi si manifestarono nei giorni seguenti. Lo stesso san Carlo Borromeo volle occuparsi della vicenda, e una volta appurata l’autenticità delle testimonianze dichiarò miracolosa l’effigie mariana di Cressogno, ordinando la costruzione del santuario.

Il tempio che noi oggi ammiriamo risale però alla seconda metà del XVII secolo, quando lo si volle rifare più ampio e più bello, secondo il progetto di Carlo Buzzi, architetto della Fabbrica del Duomo di Milano. La decorazione fu affidata ad apprezzati artisti "locali", ovvero lo stuccatore Giovanni Prandi di Porlezza e i due pittori campionesi Isidoro e Girolamo Bianchi, zio e nipote, che hanno riempito di colori il santuario della Caravina.

Ma anche fuori, sul piazzale della chiesa, contemplando il lago e le cime attorno, una preghiera a Maria sgorga spontanea dal cuore. Mentre lo sguardo pare intravedere le anime inquiete di Franco e Luisa, della piccola Ombretta e della nonna arcigna: piccolo mondo antico, che qui ancora rivive.