E quegli occhi che avevano contemplato il nitore dei maestosi paesaggi alpini e il bagliore accecante dei ghiacciai si aprono ora su una luce ancora più intensa, quella dell’infinito. Perchè Giovanni Segantini muore a neppure 42 anni, in una baita a oltre tremila metri d’altezza, colto da un violento attacco di peritonite, mentre imperversa una tempesta di neve, e solo qualche amico, fortunosamente, riesce a raggiungerlo per condividerne gli ultimi istanti di vita. Là dove era salito per dare le ultime pennellate a quel trittico – La Natura, la Vita, la Morte – che lui stesso considerava il suo primo, vero capolavoro. E che diventerà quindi il suo testamento.
Forse il pittore stesso l’aveva immaginata così, la sua dipartita da questo mondo. Nelle braccia di quella natura – sempre madre e mai matrigna, nonostante tutto – che aveva illustrato con amore filiale nelle sue bellissime opere. Fra quelle montagne di cui aveva narrato la quieta, immutabile imponenza. Nel destino di un eroismo quotidiano, fatto di fatica e di stupore, di lavoro e d’amore, costruito giorno per giorno, eppure ineluttabile
Milano, quella che fu la “sua” città della seconda infanzia e della giovinezza, a Segantini dedica oggi una bella mostra che è innanzitutto un tributo d’affetto. Per un figlio “adottato” ma non sempre capito, problematico, irrequieto, perché, come spesso accade, dotato di una sensibilità più profonda, di un’intelligenza istintiva superiore, di una genialità solo tardivamente compresa.
Oltre 120 opere, eccezionalmente prestate per questo evento da grandi collezioni pubbliche e private. Che nelle sale di Palazzo Reale diventano le tante tappe di un pellegrinaggio dell’anima, che dilata lo sguardo e il cuore, catturando il visitatore in quegli orizzonti ora vasti, ora raccolti che Segantini stesso ha voluto rappresentare, nel respiro solare degli alpeggi come nella penombra rassicurante di una stalla…
Si dice, ed è quasi scontato, che nelle opere ci sia molto dell’artista che le ha create. Ma nel caso di Giovanni Segantini questo è più che mai vero, e per nulla banale. Così che la sua pittura, anche quella che sembra più realistica, come venata di un verismo naturale, è in realtà l’espressione di sentimenti e ricordi, l’affiorare di un mondo interiore, ricco e travagliato, che sceglie i temi di una quotidianità che da urbana si fa contadina e infine montanara per raccontare sentimenti, emozioni, speranze che appartengono alle esperienze più personali, più intime, quasi ancestrali, del pittore stesso.
Nasce, Segantini, nel 1858 ad Arco di Trento, suddito asburgico di una “terra irredenta”, in un’umile e sfortunata famiglia, dove il padre, negoziante fallito, cerca di sbarcare il lunario come venditore ambulante di chincaglierie, avendo sposato in terze nozze una donna di 25 anni più giovane, Margherita, l’amatissima madre del nostro Giovanni. Che ad appena 8 anni si ritrova orfano di entrambi i genitori, e quindi affidato alle “cure” – si fa per dire – di una sorellastra che vive a Milano.
Ecco, quell’ansia di orizzonti sconfinati gli viene da lì, a Segantini. Da quelle giornate costretto in una soffitta senza finestre, senza amicizie, in una città sconosciuta, sradicato improvvisamente dal proprio ambiente e dalla propria famiglia estinta. E allora la fuga, la casa correzionale, perfino il tentativo di arruolarsi fra le camice rosse garibaldine (salvo essere rimandato a “casa” una volta scoperto che è solo un ragazzo). Una vita da barabitt, la sua, con poca istruzione e tanta strada, che gli resterà addosso sempre, come un bisogno di evasione, di libertà…
Poi l’incontro con un sacerdote, che intuisce in lui il talento artistico e gli fa da mentore. Anche se la decisione di diventare pittore la prende quel giorno che, per consolare una madre disperata per la perdita della figlia, si sente quasi “costretto” a fare un ritratto della morticina, e gli riesce così bello e così vivo che, ricordava lo stesso Segantini, «la donna per un attimo sembrò dimenticare il suo dolore…». Artista, dunque, per donare bellezza in mezzo ai drammi del vivere. E ancora una madre, ancora la morte.
Quindi gli studi discontinui all’Accademia di Brera, gli scorci e i volti della città. A dipingere gli interni delle chiese, prima di tutto, come quello di Sant’Antonio Abate, desideroso com’è, il talentuoso Giovanni, di osservare gli effetti luministici e riportarli sulla tela. Cosa che resterà fondamentale in tutta la sua ricerca artistica, sempre, essendo la sua, essenzialmente, una pittura di luce, nella campagna al tramonto come fra le cime dei monti a mezzogiorno, nella fiammella di una domestica lanterna come nell’incerto chiarore dell’alba…
A Milano Segantini conosce altri artisti, e rapidamente si fa apprezzare da collezionisti e galleristi. Partecipa a concorsi e riceve premi e riconoscimenti. Ma in fondo non gli è congeniale, la metropoli. Nel 1881, a 23 anni, con la sua Bice (della famiglia Bugatti, apprezzati ebanisti e futuri carrozzieri automobilistici di successo), compagna della sua vita che gli darà quattro figli, si trasferisce in Brianza, a Pusiano prima, a Carella e a Caglio poi, iniziando una stagione esaltante della sua produzione pittorica.
E l’“ascesa” continua, con il passaggio in Svizzera, nei Grigioni per qualche tempo, poi in Engandina, infine al Maloja. Come a cercare – lui che si definisce un “orso” e che va fiero della sua zazzera folta e dei suoi occhi penetranti – cieli sempre più limpidi, montagne sempre più alte. Sfuggendo, inutile nasconderlo, anche i creditori e le autorità austriache (che lo ritengono un renitente alla leva).
In queste atmosfere rarefatte, ad alta quota, nascono forse i suoi capolavori più belli. Dove il suo spontaneo divisionismo si fonda con una nuova consapevolezza simbolista. Così che ogni pennellata sembra un inno alla sacralità della vita. Nel tema sempre ricorrente della maternità, soprattutto, come una tenera ossessione: «Amai e rispettai sempre la donna in qualunque condizione essa sia, pur che abbia viscere di Madre».