I Dieci comandamenti “brillano” sulle colonne stesse del Duomo di Milano, a evocare anche visivamente come ancor oggi essi siano i pilastri su cui si regge la nostra moderna società. E così accade con le acque del Mar Rosso, che ancora una volta si dividono “spumeggiando” proprio sulle pareti della Cattedrale ambrosiana, richiamo imperituro a quella salvezza che viene da Dio, sostegno dei perseguitati, fustigatore di chi gestisce il potere su questa terra in modo iniquo…
È davvero un evento straordinario, quello che si sta svolgendo all’interno del Duomo di Milano, con la rappresentazione fra le navate della Cattedrale del grandioso Mosè di Gioacchino Rossini, una delle opere a soggetto biblico più significative e più amate non solo dell’Ottocento, ma di tutta l’arte lirica. Con una messa in scena emozionante e suggestiva, dove la tecnologia del video mapping trasforma la struttura stessa del tempio ambrosiano in un inedito spazio teatrale, fra canto e immagini, musica e colori.
Al talento vocale e recitativo di Ruggero Raimondi, grande protagonista della scena lirica italiana e internazionale di queste ultime decadi, è affidato il ruolo di Mosè, accompagnato da una schiera di validi interpreti e dal coro e dall’orchestra della Veneranda Fabbrica del Duomo, diretta dal maestro Francesco Quattrocchi.
Una rappresentazione in quattro parti che si preannuncia memorabile, e che infatti è stata “immortalata” in una card distribuita con il biglietto a tutti gli spettatori ad ogni serata, contenente la registrazione dell’opera in Duomo in 4k e un documentario che racconta le secolari vicende delle Veneranda Fabbrica per la costruzione e la cura della Cattedrale.
Come il Signore attraverso Mosè ha concesso la manna al popolo di Israele, così, in consonanza con la tematica di Expo, «attraverso questo evento – spiega mons. Gianantonio Borgonovo, arciprete del Duomo di Milano e presidente della Veneranda Fabbrica – la Fabbrica intende distribuire il cibo della cultura a tutti coloro che si nutriranno dell’energia che scaturisce da questa opera».
Opera che effettivamente è tra le più intense e “vissute” fra quelle scaturite dal genio di Rossini. A questo melodramma sacro, infatti, il “cigno di Pesaro” lavora a più riprese e in varie fasi della sua brillante carriera di compositore.
La prima volta è a Napoli per la quaresima del 1818, dove va in scena il Mosè in Egitto, su libretto di Andrea Leone Trottola. «Davanti a un personaggio che sembra la statua di Michelangelo disciolta alla vita», come è stato scritto, il pubblico del San Carlo va in visibilio, decretando un nuovo trionfo di Gioacchino, che allora ha appena 25 anni, ma che è già reduce dai successi nei migliori teatri italiani con Il barbiere di Siviglia, La Cenerentola e La gazza ladra. Questa però è un’opera seria, maestosamente drammatica, dove il profeta scuote la verga mutando le tenebre in luce, minacciando il Faraone per la sua empietà, invocando e pregando Iddio, sempre assistito da una coralità grandiosa, sensibile, unanime.
Eppure Rossini non è completamente soddisfatto di questa sua creatura, e già l’anno seguente, per la nuova rappresentazione partenopea (mentre gli arrivano offerte e proposte da ogni parte della Penisola e d’Europa), decide di modificare il suo Mosè inserendo quello che sarà destinato a diventare uno dei momenti più alti della storia del melodramma del XIX secolo, la celebre preghiera «Dal tuo stellato soglio», con cui l’eroe biblico e il popolo d’Israele invocano il Signore affinché apra loro una via di fuga dagli egiziani inseguitori.
Trasferitosi a Parigi, acclamato come il più grande musicista vivente, Rossini ripropone l’epopea mosaica anche al pubblico francese. Ma il necessario cambio di lingua diventa per il compositore anche l’occasione per una profonda rielaborazione dell’oratorio originario, che, sotto il nuovo titolo di Moïse et Pharaon, nel 1827 si trasforma in una sorta di grand-opéra, con nuove azioni coreografiche più spettacolari e una “tinta” musicale, che si rivela, infine, del tutto diversa.
In una sorta di viaggio di andata e ritorno, così, il capolavoro sacro rossiniano approda nuovamente in Italia, oltre dieci anni dopo gli entusiasmi della prima rappresentazione napoletana. Il Mosè che va in scena il 30 giugno 1835 al Teatro della Canobbiana di Milano (prima cioè della Scala, dove arriverà solo nell’autunno di quello stesso anno) è dunque la quarta versione dell’opera di Gioacchino Rossini, quella tradotta dal francese dal librettista Callisto Bassi, ed è esattamente quella che oggi viene rappresentata nel Duomo di Milano.
Ma non fu soltanto la qualità artistica e musicale a decretare il successo di questo lavoro. Nel capoluogo lombardo, e ovunque si lottava per affrancarsi da un governo straniero oppressore, il Mosè rossiniano divenne infatti una vera “icona” risorgimentale, simbolo di libertà e di riscatto. Così come, nel viaggio degli israeliti verso la Terra Promessa, i patrioti italiani “vedevano” il cammino, duro ma esaltante, verso la creazione della loro Italia “promessa”.