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Sfide

Qual è il posto di Dio nella nostra cultura?

“Aprire a Cristo le porte della cultura contemporanea” è il compito affidato dal cardinale vicario di Roma, Agostino Vallini, ai partecipanti al decimo Simposio Internazionale dei docenti universitari, “Le culture dinanzi a Dio. Sfide, ricerche, prospettive, dal Mediterraneo al mondo”.

21 Giugno 2013

“Aprire a Cristo le porte della cultura contemporanea” è il compito affidato dal cardinale vicario di Roma, Agostino Vallini, ai partecipanti al decimo Simposio Internazionale dei docenti universitari, “Le culture dinanzi a Dio. Sfide, ricerche, prospettive, dal Mediterraneo al mondo”.

“Dio ha ancora un posto nella cultura di un popolo?”, è l’interrogativo posto dal porporato, secondo il quale le nuove culture “hanno lentamente emarginato Dio fino a farlo scomparire dall’orizzonte della vita umana”. “Dopo 200 anni di cultura illuministica e alla luce degli esiti da essa prodotti – riflette Vallini – è lecito domandarsi se le culture che hanno come criterio unico la ragione umana hanno realizzato il perfezionamento dell’uomo e delle società”. “Se Dio scompare dall’orizzonte umano, la cultura economica riduce l’uomo a fattore di produzione aumentando gli squilibri tra nazioni ricche e nazioni povere, e le disuguaglianze all’interno delle stesse nazioni”. Per il cardinale, inoltre, “una cultura che assolutizza le scienza” rischia di ridurre l’uomo, in particolare nelle primissime fasi di vita, a materiale di sperimentazione”, ed è quello che “si manifesta con evidente chiarezza oggi”, di fronte ad una crisi che “non è soltanto economica, ma è anzitutto cultuale, di valori”.

Per questo, afferma il cardinale vicario, sarebbe “illusorio pensare di uscirne solo con leggi volte a sostenere l’economia. Occorre ripensare il modello di sviluppo al fine di suscitare culture che pongano di nuovo l’uomo al centro”. “Dio – sostiene – ha ancora qualcosa da dire agli uomini del nostro tempo”, come ebbe a dire al Collège des Bernardins Benedetto XVI ricordando che la cultura si era sviluppata “nei monasteri nei quali il quaerere Deum era al cuore di ogni attività”.

“La fede che è adesione al Dio rivelato può dare un’anima alle culture perché dice all’uomo chi egli sia. Sotto un certo aspetto la fede è cultura”. Per questo, è il monito di Vallini, “nelle aule universitarie occorre riprendere il dialogo tra fede e culture” nella consapevolezza che “il Vangelo ha ancora molto da dire ai nostri contemporanei”. La Chiesa, anche attraverso le nuove tecnologie, “deve offrire la sapienza della rivelazione: logos che crea dialogos; rivelazione e comunicazione”. “La nascita di un nuovo umanesimo potrà avvenire solo se la quaestio de veritate” verrà rimessa al centro del confronto. Centrale la testimonianza: le culture “non potranno rifuggire dall’interrogarsi su Dio – conclude il cardinale – se incontreranno uomini e donne che nella vita quotidiana fanno proprie e testimoniano le ragioni del credere”

“Questo nostro Mediterraneo, culla della civiltà moderna”, è anche “luogo di collaborazione e di lotta”. E la collaborazione “è confronto, dialogo con culture e civiltà, in un rinnovato problema di dimensione religiosa che può essere eliminata dalle società, può imporre un confronto, può essere essa stessa fattore di sviluppo”. Così Cesare Mirabelli, docente dell’Università degli studi di Roma Tor Vergata, introducendo questo pomeriggio nella Sala della Protomoteca a Roma i lavori del decimo Simposio Internazionale dei docenti universitari, “Le culture dinanzi a Dio. Sfide, ricerche, prospettive, dal Mediterraneo al mondo”, promosso nella capitale dall’Ufficio diocesano per la pastorale universitaria. Mirabelli, che è anche presidente del Comitato scientifico del Simposio, ha sottolineato l’obiettivo dell’appuntamento che prosegue nella linea dei precedenti: “mettere insieme le diversità in uno spirito di libertà e dialogo nella vocazione universalistica delle università”. Un lavoro “che vuole costituire un sevizio per la comunità e la società” e “potrà dare i suoi frutti soprattutto nel momento di crisi che tocca il nostro Paese ma anche l’area mediterranea su cui esso si affaccia”.

Mediterraneo, culla della civiltà moderna
Di “appuntamento importante per la nostra città” e testimonianza dell’impegno per trasformare Roma “in capitale delle intelligenze”, parla il neosindaco Ignazio Marino, alla sua prima uscita pubblica, ricordando “la riconferma della convenzione tra sistema pubblico e pontificio è un segnale importante in questa direzione”. Per Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio, “la circolazione delle idee rimane il più proficuo dei modi per creare comprensione e fratellanza”.

“Questo nostro Mediterraneo, culla della civiltà moderna”, è anche “luogo di collaborazione e di lotta”. E la collaborazione “è confronto, dialogo con culture e civiltà, in un rinnovato problema di dimensione religiosa che può essere eliminata dalle società, può imporre un confronto, può essere essa stessa fattore di sviluppo”. Così Cesare Mirabelli, docente dell’Università degli studi di Roma Tor Vergata, introducendo questo pomeriggio nella Sala della Protomoteca a Roma i lavori del decimo Simposio Internazionale dei docenti universitari, “Le culture dinanzi a Dio. Sfide, ricerche, prospettive, dal Mediterraneo al mondo”, promosso nella capitale dall’Ufficio diocesano per la pastorale universitaria. Mirabelli, che è anche presidente del Comitato scientifico del Simposio, ha sottolineato l’obiettivo dell’appuntamento che prosegue nella linea dei precedenti: “mettere insieme le diversità in uno spirito di libertà e dialogo nella vocazione universalistica delle università”. Un lavoro “che vuole costituire un sevizio per la comunità e la società” e “potrà dare i suoi frutti soprattutto nel momento di crisi che tocca il nostro Paese ma anche l’area mediterranea su cui esso si affaccia”.

Alle radici dei problemi
“Mi chiedo cosa faccia qui un professore siriano mentre il suo Paese è dilaniato dalla violenza”. E’ un esordio spontaneo, quello di Hani Mourtada, già rettore dell’Università di Damasco, intervenuto al decimo Simposio internazionale dei docenti universitari, “Le culture dinanzi a Dio. Sfide, ricerche, prospettive, dal Mediterraneo al mondo”.

A conclusione del suo discorso, Mourtada ha chiesto “aiuto e supporto per l’attuazione di strategie di pace e di una graduale riforma senza violenza, per rendere la Siria ed il mondo un posto migliore per tutti”. “Il bene più grande per qualsiasi società” è “l’educazione delle menti alla pace e alla risoluzione dei conflitti”, ha quindi affermato Mourtada ponendo l’interrogativo su come le università possano “essere custodi di una pace duratura”. “Che tipo di strumenti e di conoscenza dobbiamo inculcare nei leader del futuro? Dobbiamo mirare alla formazione di laureati pacifici” o creare “reti universitarie a livello nazionale che collaborino alla risoluzione dei conflitti?”. Urgente, secondo l’intellettuale siriano, pensare al “contributo più concreto che l’università può dare per assicurare e sostenere la proliferazione della pace e della giustizia. Ciò è particolarmente vero per il Medio Oriente”.

Una strada, secondo Mourtada, è il risalire alle radici dei problemi, e “non c’è – assicura – ambiente migliore dell’università per indagare tali radici”. Una volta identificate le cause dei problemi, “vedremo che è indispensabile raggiungere il comune denominatore: una comprensione comune e l’accettazione della storia di un conflitto”, con la chiara identificazione di “aggressori e vittime” e “una misura significativa di contrizione da parte degli aggressori”. Insomma è necessaria la ricerca della verità, “a qualunque prezzo” perché, secondo la “spiegazione semplice ma convincente” della Bibbia: “Conosceremo la verità e la verità ci renderà liberi”. Il ruolo dell’università è allora incoraggiare questa ricerca. Ma anche riflettere su povertà e ingiustizia, cause ed effetti dei conflitti. In Siria, chiosa Mourtada, “stiamo comprendendo che la ricchezza umana” è “nella diversità delle sue culture. Ora, in questi tempi difficili, in cui il mondo deve unirsi per affrontare sfide ecologiche e geopolitiche, dobbiamo riconoscere che siamo tutti parte di una stessa specie”. Di qui la richiesta di “aiuto e supporto”.

Europa, situazione paradossale
Oggi in Europa “lo stato della religione è paradossale”. Da un lato essa “è rientrata a far parte dello spazio pubblico e chiede una risposta”; dall’altro gli europei stanno “perdendo i concetti, le conoscenze, il vocabolario necessari per parlare di religione”. Lo afferma Gracie Davie, docente di sociologia delle religioni (Università Exeter – UK).

La relatrice si è soffermata sui fattori che, a suo giudizio, “stanno attualmente modellando la vita religiosa dell’Europa; non soltanto cambiano e si adattano nel tempo, ma spingono e tirano in diverse direzioni”. Anzitutto “il ruolo delle Chiese storiche nella formazione della cultura”. La tradizione cristiana ha avuto “un effetto irreversibile sul tempo (calendari, stagioni, feste) e sullo spazio (sistema parrocchiale e influenza delle costruzioni cristiane) in questa parte del mondo”. “Anche se non sono più in grado di disciplinare le credenze ed il comportamento della grande maggioranza della popolazione”, queste Chiese storiche “ricoprono ancora un ruolo in particolari momenti della vita degli attuali europei” che vi ritornano “nei momenti di celebrazione di gioia o di dolore (individuale e collettivo)”.

Davie sottolinea un mutamento: oggi la Chiesa “opera sempre più su un modello di scelta, piuttosto che su un modello di obbligo o di dovere. Come risultato, i membri delle chiese storiche stanno cambiando la loro natura; sempre più per scelta che per eredità”. A questo si aggiunge “l’arrivo in Europa di gruppi di persone da diverse parti del mondo. Principalmente un movimento economico, ma con enormi implicazioni per la vita religiosa del continente”. Il profilo religioso dell’Europa viene alterato anche dall’aumento dei “cristiani dal sud accanto ad altre significative comunità religiose”. Tra le sfide, l’idea che “la religione debba essere considerata una questione privata”. “Veementi”: la relatrice giudica così alcune “reazioni dell’élite secolare al crescente significato della religione nella sfera pubblica”. Gli europei stanno iniziando a comprendere che “l’Europa è secolare non perché è moderna, ma perché è europea. Alcuni europei accolgono questa intuizione; altri ne sono sconcertati”. Secondo Davie, la “non competenza” a parlare di religione è nel Regno unito è “l’unica ragione del deplorevole livello del dibattito pubblico in questo ambito”. La gestione di questa situazione, conclude, è la sfida che le società europee affrontano oggi.