Ho sempre considerato Cesare Pavese un mio fratello maggiore. Fin dal primo momento, quando un nasuto spilungone magro magro, la faccia ossuta, quasi equina, e la sigaretta pendula dal lato sinistro della bocca, m’è apparso davanti».
A distanza di settant’anni dal primo incontro, Franco Ferrarotti, padre della sociologia italiana, ricorda in un libro la sua amicizia con l’autore di Paese tuoi e La luna e i falò e riproduce le due sole lettere di Pavese sopravvissute alla distruzione del carteggio.
Professore emerito di Sociologia all’Università di Roma «La Sapienza», Ferrarotti è stato collaboratore di Adriano Olivetti, deputato indipendente al Parlamento italiano e autore di saggi tradotti in tutto il mondo.
La sua amicizia con Pavese, facilitata dalla comune radice piemontese, attraversa gli anni della guerra e dalla resistenza, si alimenta di traduzioni importanti – dal Moby Dick Melville al primo testo di Veblen – e di notti nelle piòle della periferia torinese per celebrare le «frasi giuste», lungamente cercate per rendere in italiano concetti ostici. Una relazione arricchita di richiami, consigli e domande che viaggiano tra Torino, Parigi e Londra, di discorsi sulla fede e anche di un’insolita proposta di Pavese: convincere il regista di Riso amaro ad assegnare a Ferrarotti e non a Gassman la parte del «cattivo» nel film con l’avvenente Silvana Mangano.
Nel libro Al Santuario con Pavese. Storia di un’amicizia, pubblicato dalle Edizioni Dehoniane Bologna e in libreria a metà gennaio (pp. 128, € 11,50), Ferrarotti ricorda che negli anni più duri della Resistenza, nel 1943-1944, «è probabile che al Santuario di Crea, nel Monferrato, Cesare abbia cercato conforto nella religione degli antichi padri. Credo che abbia anche fatto la comunione, forse in uno di quegli improvvisi, non resistibili ritorni di fiamma della fede degli anni d’infanzia. Un’esperienza piuttosto rara fra gli intellettuali molto consci di sé, della propria cultura, superbamente chiusi nella famosa torre d’avorio, pronti a turare i buchi dell’universo con i loro berretti da notte», incapaci di comprendere lo struggimento di un uomo che, ormai non lontano dalla stanza dell’hotel di Torino in cui si suicidò il 27 agosto del 1950, «ricordava i giorni dell’infanzia, quando si proibiva di deglutire per non infrangere la regola del digiuno prima di ricevere l’ostia consacrata».