Con gesto di materna premura, Maria svela il figlio all’umanità adorante, e si commuove ella stessa alla vista del frutto del suo grembo, il Verbo che si è fatto carne per amore. E la luce che rifulge dal divino infante si riflette sui volti dei presenti, ad accendere i cuori, a illuminare la notte. Sì, ecco la bontà misericordiosa di Dio, venuta «a visitarci dall’alto come sole che sorge, per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte»…
È un capolavoro davvero da riscoprire, questa Adorazione dei pastori di Pieter Paul Rubens. Un’opera splendida ed emozionante, che dalla Pinacoteca di Fermo viene oggi offerta all’ammirazione del più vasto pubblico nel consueto appuntamento natalizio a Palazzo Marino a Milano. Un messaggio di speranza e di pace nel linguaggio universale della bellezza dell’arte, come i promotori di questo evento hanno voluto sottolineare, al di là di ogni retorica.
Rubens realizzò questa tela nel 1608, dopo otto anni di permanenza in Italia. Vi era arrivato dalle Fiandre poco più che ventenne per completare la sua formazione artistica, come molti altri pittori del nord Europa. A Reggio Emilia aveva ammirato i lavori del Correggio, a Roma si era lasciato ispirare dal Carracci, nutrendosi anche delle antichità classiche che ogni giorno andavano scoprendosi. Ma, soprattutto, era rimasto folgorato dai dipinti di un collega pressoché coetaneo, quel Michelangelo Merisi detto il Caravaggio che aveva portato nella Città eterna una ventata di rivoluzione.
Come lo stesso Caravaggio, anche Rubens frequentava l’ambiente degli oratoriani di san Filippo Neri. E proprio per la nuova chiesa che la congregazione aveva eretto a Fermo, al giovane pittore fiammingo, ormai assai apprezzato, venne commissionata questa grandiosa Natività. Che di fatto resterà l’ultimo suo lavoro realizzato nel nostro Paese, prima del suo definitivo ritorno a casa, ricco di esperienze e di ricordi.
La pala di Rubens, sempre venerata dai fedeli del centro marchigiano, per la sua collocazione “appartata” è rimasta a lungo sconosciuta alla critica, e “riscoperta” soltanto negli anni Venti del secolo scorso dal grande storico dell’arte Roberto Longhi, che riconobbe in quest’opera uno dei capolavori assoluti del maestro fiammingo, artefice della grande stagione barocca al di là delle Alpi.
I pastori, ai quali per primi è stato dato il lieto annuncio (loro che vivono nomadi ai margini delle città, loro che vegliano nell’attesa mentre i dotti di questo mondo cedono al sonno, come evidenziavano simbolicamente i Padri della Chiesa), si stringono attorno alla mangiatoia dove giace il bambino Gesù. Il loro aspetto, i loro visi, rivelano età diverse: c’è la ragazza col cesto, poco più che adolescente; un giovane vigoroso, dalle membra nerborute; un uomo maturo, i capelli appena striati di bianco; l’anziana dalla pelle rugosa. L’umanità intera, i figli di Adamo e di Eva, giungono qui ad adorare il Cristo.
Giuseppe, più in ombra, ma non certo avulso dalla scena, alza lo sguardo in alto, dove volteggiano angeli e putti di corposa fisicità, stendendo come uno striscione nella stalla di Betlemme l’inno di gloria.
Anche gli occhi della vecchia si alzano dal giaciglio del neonato: ed è uno sguardo di commozione, di una gioia interiore per una speranza a lungo attesa, e che ora finalmente si compie. Così che questa figura pare già l’immagine della profetessa Anna, “molto avanzata in età” (come riporta il vangelo di Luca), che nel Tempio, insieme al venerando Simeone, riconoscerà in quel bambino il Salvatore…
È un “gioco” di anticipazioni che Rubens, crediamo, attua anche con il personaggio ammantato di rosso, che ha così grande evidenza in primo piano. L’atteggiamento risoluto del pastore, la corta barba, la stessa veste purpurea, ma soprattutto il gesto perentorio della mano a indicare Gesù, sembrano voler rimandare alla figura stessa del Battista: eccolo, dice quel dito puntato, «l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo».