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La “Monaca di Monza”, la vera storia tra arte e letteratura

Alessandro Manzoni ne ha fatto uno dei personaggi più affascinanti e tragici dei "Promessi sposi". Ma ha preso spunto da una vicenda realmente accaduta, oggi raccontata in una interessante esposizione allestita pressola Villa Reale di Monza, tra documenti, dipinti e disegni. Fino al prossimo 19 febbraio.

di Luca FRIGERIO

9 Febbraio 2017

«La sventurata rispose». Chiunque si sia avvicinato ai Promessi sposi, anche solo di sfuggita o per gli obblighi scolastici, ha ben presente queste parole, e il drammatico contesto in cui sono inserite. La triste vicenda, cioè, di Gertrude, costretta a monacarsi per interessi dinastici e vittima della sua stessa fragilità morale, per cui diventa l’amante di un giovane scapestrato, Egidio, complice con lui di efferati delitti per cercare di nascondere la tresca.

Alessandro Manzoni fa della “Monaca di Monza” uno dei personaggi più affascinanti del suo romanzo, tratteggiando una figura tragicamente solenne e dando prova di grande finezza letteraria, ma anche di profonda introspezione psicologica. Attraverso pagine memorabili, che condannano l’uso sciagurato del potere, dall’ambito familiare a quello sociale, come l’incapacità di “misurare” la portata delle proprie azioni. E tuttavia provando pietà sincera per questa donna impossibilitata, e forse persino incapace, di governare la sua vita, e quindi destinata alla rovina.

Quello che forse non tutti sanno, però, è che la “Monaca di Monza” non nasce dalla fantasia del Manzoni, ma è una figura realmente esistita, a cavallo tra Cinque e Seicento, che lo scrittore lombardo ha ripreso e adattato due secoli più tardi, inserendola nella vicenda di Renzo e Lucia.

Come viene oggi raccontato, ed è forse la prima volta, in una interessante mostra allestita nel Serrone della Villa Reale di Monza, attraverso le precise testimonianze documentali dell’epoca, atti e registi provenienti dall’Archivio di Stato di Milano e soprattutto dall’Archivio storico diocesano. Ma anche grazie a una serie di dipinti, disegni e incisioni – bellissime, fra le altre, le opere esposte di Hayez, Bianchi e Molteni – che illustrano l’affermarsi di questa «sventurata» eroina nell’immaginario collettivo, soprattutto tra Otto e Novecento, dopo la pubblicazione, appunto, del best seller manzoniano. Una rassegna da cui emerge, a tutto tondo, fra luci e ombre, anche la vita e la religiosità in terra ambrosiana nell’epoca borromaica.

La Gertrude dei Promessi sposi si chiamava in realtà Marianna, figlia primogenita del conte Martino de Leyva de la Cueva-Cabrera e nipote del primo governatore spagnolo di Milano. La madre, invece, era Virginia Maria Marino, e morì neppure un anno dopo avere dato alla luce Marianna, nel 1575, proprio in quel palazzo che oggi è la sede del Comune di Milano.

Orfana di madre, con il padre che si era presto risposato a Valencia (dove si era fatto una nuova famiglia), Marianna, anche per privarla della cospicua eredità materna, fu indotta ancora adolescente a entrare nel convento di Santa Margherita a Monza, città di cui la famiglia era feudataria. Del borgo brianzolo, del resto, la nobildonna era la vera “Signora”, riscuotendo i tributi dovuti e occupandosi dei propri affari anche nella clausura.

Pronunciati i voti, Marianna prese il nome di suor Virginia, in memoria della mamma che non aveva conosciuto. In convento viveva in un appartamento privato, assistita da una piccola corte, con un tenore di vita adeguato al suo rango. E ben presto iniziò una relazione amorosa con il nobile monzese Gian Paolo Osio, che abitava accanto al cenobio delle monache, dalla quale nacquero almeno due figli.

La situazione precipitò nel 1606, quando una conversa tentò di ricattare i due amanti, minacciando di rendere pubblico il loro rapporto. L’Osio allora assassinò la giovane, seppellendola nel convento stesso. Ma poi cercò di eliminare anche altre due suore, che erano diventate anch’esse un pericolo per l’illecita coppia. Salvatesi a stento, le religiose denunciarono tutto alle autorità, che subito arrestarono suor Virginia. Gian Paolo, invece, riuscì a scappare a Milano e a rifugiarsi presso alcuni “amici”, che tuttavia lo tradirono e lo uccisero, per incassare la taglia che era stata messa sulla sua testa.

Processata, la “Monaca di Monza” fu trasferita per ordine del cardinale Federico Borromeo nella casa delle Convertite di Santa Valeria, nei pressi della basilica di Sant’Ambrogio, e rinchiusa in una cella con la porta e la finestra murate «in modo che non vedesse se non tanto spiracolo bastante per dire l’Offizio».

Qui suor Virginia espiò le sue colpe per quasi tre lustri, ricevendo infine l’assoluzione dallo stesso Borromeo, che poté constatare il suo sincero ravvedimento, al punto di affidarle la guida spirituale di giovani monache. Morì nel 1650, alla venerabile età di 75 anni, pianta da molti.

 

La mostra
La Monaca di Monza
è aperta fino al prossimo
19 febbraio presso
la Reggia di Monza
(viale Brianza, 2).
Orari: da martedì a venerdì,
10-13 e 14-18;
sabato e domenica,
10-19.30.
Catalogo Bellavite Editore.
Info: tel. 02.36638600,
www.reggiadimonza.it