“Non mi importa di dovermi sedere sul pavimento a scuola. Tutto ciò che voglio è istruzione. E non ho paura di nessuno”. Si tratta di una delle frasi più famose di Malala Yousafzai, la più giovane vincitrice del Nobel per la Pace (2014). Ha compiuto 18 anni solo questa estate e ha dedicato tutta la sua giovane vita alla lotta per il diritto all’istruzione delle donne pakistane diventando un modello per bambini e bambine in tutto il mondo. Il suo blog, realizzato quando aveva solo undici anni, attirò l’attenzione dei talebani che le spararono in testa. Le cure e l’attenzione dell’ospedale di Birmingham le salvarono la vita. Il padre passava la notte ad imbustare pop corn per permetterle di studiare.
Nel 2013 venne pubblicato un suo libro autobiografico, intitolato “Io sono Malala” dedicato in gran parte proprio al rapporto così fecondo con il padre. Adesso quel libro e la storia di Malala sono diventate un film. Lo ha realizzato Davis Guggenheim, un regista americano con un curriculum di tutto rispetto: ha collaborato con Al Gore nella sua lotta contro il riscaldamento globale aiutandolo a realizzare il film premiato con l’Oscar “Una scomoda verità”; ha poi girato “Waiting for Superman”, un documentario per sostenere il diritto all’educazione. Era inevitabile che decidesse di raccontare la storia di Malala. I produttori Walter Parkes e Laurie MacDonald avevano acquisito i diritti del libro “I Am Malala”. Il regista pensava di realizzarne un film di finzione, con attori al posto dei protagonisti. Con queste intenzioni si è recato ad incontrarla. Il suo colloquio con la giovane donna però gli ha fatto cambiare idea. “Nessun altro avrebbe potuto interpretare Malala se non Malala stessa”, ha detto Guggenheim ai giornalisti la scorsa settimana, durante la preview del film a Telluride.
Il documentario è dedicato, come il libro, al complesso rapporto fra Malala e il padre. È stato realizzato in parte con riprese dal vivo a Birmingham durante il sedicesimo compleanno di Malala, con materiale di repertorio sull’intenso attivismo della ragazza e con alcune ricostruzioni (anche in animazione) dei momenti che nessuna telecamera ha potuto riprendere, come quello tragico del momento dell’attentato nel bus che la portava a scuola. Il pubblico del film festival americano di Telluride ha seguito la proiezione di questo dramma “sincero e commovente” con il fiato sospeso. “Parlare anche di fronte alla morte è la cosa giusta da fare”, ha ripetuto il regista durante la conferenza stampa.
Alla proiezione di Telluride ha partecipato il padre di Malala e la ragazza, per motivi di sicurezza (i talebani la vogliono morta) si è collegata in streaming da Birmingham. Il nome Malala le è stato dato dal padre con un’idea che in qualche modo ha segnato il destino della ragazza. Si tratta infatti dello stesso nome di un adolescente afghano che venne ucciso per il suo attivismo in difesa della libertà dal fondamentalismo dei talebani. “È meglio vivere come un essere umano per un giorno che vivere come uno schiavo per 100 anni”, ha urlato il padre di Malala durante la conferenza stampa. “Io sono lo stessa Malala che ha trovato la morte in Afghanistan e mi è stata data una nuova vita. Questo è un dono sacro”, ha detto la ragazza. Il documentario si sofferma su un desiderio di normalità, fra tonnellate di compiti da fare e gli scherzi con i fratelli, ma non ignora gli aspetti politici più violenti della vicenda (i momenti più duri del documentario, dicono i giornalisti che lo hanno visto a Telluride) e l’eccezionalità di una testimonianza fuori dal comune con i consigli che la giovanissima Malala fornisce continuamente ai potenti della terra, da Obama a Cameron.
Il film è sostenuto da Image Nation di Abu Dhabi e Participant Media e sarà distribuito da Fox Searchlight e da Natgeo. “Non c’è un paese che non avrà questo film”, ha dichiarato Guggenheim prima della proiezione. Il festival di Toronto ha già fatto richiesta del film e, in questo modo, è anche iniziata anche la corsa verso l’Oscar.