«Belle foto, vanno pubblicate», sentenziò Robert Capa, il fotografo diventato leggendario per i suoi servizi sulla guerra civile in Spagna e sullo sbarco in Normandia, esaminando il materiale che gli aveva sottoposto una sua assistente, come era già successo altre volte in passato. «Chi le ha fatte?». «Io», rispose la donna. Capa sorrise, annuendo. Non lo sapeva, ma forse se lo aspettava, considerando che in quegli anni aveva potuto apprezzare l’intuito e le doti di quella giovane collaboratrice, interprete e redattrice per la nuova agenzia fotografica “Magnum” che lui stesso, con Henri Cartier-Bresson, aveva fondato.
Era il 1953 e quella donna si chiamava Inge Morath. La sua carriera di fotografa iniziava così, a 30 anni: formatasi nel dopoguerra nel vivace e avventuroso ambiente dei fotoreporters, tra Vienna e Parigi, alla fine aveva capito che anche lei voleva e doveva raccontare il mondo attraverso l’obiettivo di una macchina fotografica. Impresa tutt’altro che scontata, se si considera che all’epoca anche questo era un settore prevalentemente “maschile”, dove le donne, al di più, si occupavano di fotografia in studio…
A questa grande fotografa, forse ancora poco nota al pubblico italiano, il Museo diocesano “Carlo Maria Martini” di Milano dedica una mostra emozionante, ospitando nel proprio foyer la retrospettiva curata da Brigitte Blüml e Kurt Kaindl (amici storici dell’artista) insieme a Marco Minuz. Un’occasione da non perdere per conoscere una delle protagoniste del reportage fotografico del Ventesimo secolo e le sue stupende immagini: un sorprendente giro del mondo attraverso una selezione di ben 150 scatti (tutti in un elegante, quanto eloquente, bianco e nero), a illustrare mezzo secolo della nostra storia.
Inge Morath era nata a Graz, in Austria, nel 1923. Fin da piccola si abitua a una vita piuttosto “nomade” (il padre, ingegnere, si sposta per lavoro tra l’Alsazia e la Prussia), sviluppando una spiccata capacità di adattamento e un’incontenibile curiosità per la vita. Come per tutta quella generazione, la sua giovinezza è segnata dal regime nazista, ma la ragazza viene più volte segnalata per il suo atteggiamento troppo indipendente. La fine della guerra è veramente la fine di un incubo. La sua attitudine per le lingue la porta a lavorare per il servizio d’informazioni americano, cominciando così a occuparsi di giornalismo, d’arte e di fotografia.
Nel 1955 è socia effettiva della Magnum Photos: la prima donna, la più giovane del gruppo. Dell’agenzia che ha rivoluzionato il modo di concepire i servizi fotografici (e quindi il giornalismo e l’informazione stessa), ma anche il rapporto tra fotografi ed editori, Inge condivide tutto: lo spirito d’avventura; il giocarsi in prima persona; l’andare al cuore dei fatti e delle situazioni; la ricerca di un linguaggio espressivo capace di coinvolgere lo spettatore, sempre rispettoso della verità, ma oltre la semplice “documentazione”.
Capa, Cartier-Bresson e Seymour sono i suoi maestri, e da loro apprende moltissimo, ma Morath dimostra fin da subito un suo stile e una sua visione, unici e inconfondibili. Uno sguardo che potremmo definire anche “femminile”, certamente. Nell’empatia, ad esempio, che riesce a instaurare, sempre, spontaneamente, con i soggetti delle sue foto: siano essi i pescatori della laguna di Venezia, i proletari irlandesi, gli operai cinesi, gli scrittori russi, gli studenti francesi, i pastori danubiani, i mercanti persiani, gli artisti di New York o gli attori di Hollywood…
E proprio con lei, forse per la prima volta, i reportages fotografici si riempiono di presenze femminili: quelle donne – madri, mogli, figlie, nonne, lavoratrici, contadine, impiegate… – che fino ad allora erano rimaste ai margini della scena, figure evanescenti sullo sfondo della storia, e che Inge Morath invece fa diventare finalmente protagoniste, come in effetti sono.
«Ho amato le persone». Ecco, in fondo il “segreto” di questa grande artista della fotografia è stato proprio questo, come lei stessa ha rivelato. «Mi hanno permesso di fotografarle, ma anche loro volevano che le ascoltassi, per dirmi quello che sapevano. Così abbiamo raccontato la loro storia insieme». E così facendo, Inge ha raccontato innanzitutto se stessa, come oggi possiamo capire osservando le sue bellissime immagini. Perché, affermava, «fotografare è un fenomeno strano: ti fidi dei tuoi occhi e non puoi fare a meno di mettere a nudo la tua anima».
La mostra dedicata a Inge Morath resterà aperta fino al prossimo 1 novembre. Catalogo SilvanaEditoriale. Anche quest’anno, durante i mesi estivi, il Museo diocesano in collaborazione con “Chiostro bistrot” propone la formula «mostra più aperitivo» (10 euro) dalle 18 alle 22. Per informazioni sugli orari e sulle modalità d’accesso: tel. 02.89420019; www.chiostrisanteustorgio.it ; www.mostramorath.it