Il 17 marzo John Kovac e Chao-Lin Kuo, del Centro di astrofisica dell’università di Harvard, a Boston, hanno dato l’annuncio della prima registrazione dei segnali della cosiddetta “inflazione cosmica”, la repentina dilatazione subita dall’universo immediatamente dopo la sua nascita, 13,8 miliardi di anni fa, durata una minuscola frazione di secondo. A captare i segnali il telescopio a microonde Bicep2 (Background Imaging of Cosmic Extragalactic Polarization), situato al Polo sud. Del valore della scoperta abbiamo parlato con Piero Benvenuti, docente di astrofisica presso l’Università di Padova e consultore del Pontificio Consiglio della cultura.
Come definirebbe la portata di questa scoperta?
Eccezionale, perché l’ipotesi dell’espansione inflazionaria dell’universo era stata formulata nel 1979 dal cosmologo americano Alan Guth che aveva immaginato ci potesse essere stata una dilatazione esponenziale per la quale l’universo sarebbe aumento di volume di un fattore pari a 1 seguito da 50/60 zeri. Un’ipotesi fino ad oggi senza alcuna giustificazione fisica, alla quale hanno lavorato in questi anni i fisici teorici analizzando in particolare le proprietà dello spazio che, come sappiamo, non è mai vuoto: contiene almeno i campi elettromagnetico e gravitazionale. Questa scoperta, basata su dati sperimentali e quindi verificabili, ci dice che l’espansione è a tutti gli effetti una realtà, anche se non ne spiega le cause. Nel 2009 l’Agenzia spaziale europea ha lanciato il satellite scientifico Planck per studiare la radiazione cosmica di fondo, un’attività di ricerca sulla polarizzazione della luce che proviene dal fondo cosmico simile a quella effettuata dagli scienziati di Harvard. Quello che potrebbe apparire un ritardo nella pubblicazione dei dati della missione Planck, prevista a fine anno, è giustificato dalla mole degli stessi che riguardano tutto l’universo. Dati che potranno confermare la scoperta Usa.
Quali prospettive schiude per la cosmologia e più in generale per la ricerca?
Rafforza l’idea di costruire esperimenti in grado di rilevare le cosiddette onde gravitazionali, ossia le increspature dello spazio-tempo create dai moti dell’universo e molto difficili da captare. Prima d’ora non si era mai riusciti a farlo. I dati proposti sono il riflesso sulla luce di queste increspature. Se si riuscisse a portare a termine gli esperimenti spaziali proposti in materia, ci si potrebbe spingere ancora più indietro nel tempo. Per indagare l’origine del cosmo abbiamo fino ad oggi utilizzato la luce; se avessimo la possibilità di rilevare le onde gravitazionali potremmo disporre di un altro canale di informazione in grado di penetrare di più dietro le stelle.
Ampliare l’orizzonte della conoscenza è sempre entusiasmante; in che modo ogni nuova acquisizione “riscrive” la concezione dell’uomo e del creato?
Questo annuncio incoraggia verso ulteriori traguardi, come è nello spirito della ricerca, pur nella consapevolezza che astronomi e cosmologi possono osservare l’universo, ma non lo possono piegare alla loro volontà. Il metodo scientifico offre un contributo preziosissimo alla conoscenza ma non può arrivare a sapere tutto e tantomeno a spiegare o a proporre soluzioni a tutto. Lo scienziato si deve chiedere sempre fino a che punto può procedere, ammettendo con umiltà i limiti di un metodo ancorato a dati sperimentali, e riconoscere altre vie.
Quali?
La filosofia e la teologia. Chi si riconosce come un essere creato, può utilizzare i dati sperimentali raccolti sull’universo per arricchire la propria relazione con il creato e il Creatore, confermando le potenzialità insite nella creazione, alcune ancora inespresse. La concezione di creazione non cambia; il suo oggetto continua invece ad evolversi in ogni istante della realtà presente.
Quindi nessun conflitto tra teorie della creazione e dell’evoluzione?
No. Le verità della fede vengono anzi illuminate dai traguardi raggiunti dalla ricerca. Il ‘discorso’ scientifico è distinto ma complementare al ‘discorso’ filosofico e a quello teologico, e viceversa. I risultati della scienza sono incontrovertibili; se la filosofia e la teologia non ne tenessero conto rischierebbero di costruire visioni dell’uomo sempre più lontane dalla realtà dei fenomeni. Scienza, filosofia teologia devono ‘parlarsi’, pur rimanendo nei propri ambiti, con i propri metodi, e coscienti dei propri confini di competenza.
A che punto è questo dialogo?
Ha dato risultati eccellenti, ma per ora solo a livello accademico. Non mi sembra abbia ancora raggiunto la gente comune. Le Facoltà teologiche hanno compiuto passi avanti nella formazione di teologi con buone competenze scientifiche di base; rimane tuttavia aperta la questione della formazione degli attuali sacerdoti e dei catechisti. La scienza procede a velocità vertiginosa e la Chiesa non può rimanere indietro; essa è chiamata ad accompagnare il cammino della ricerca e a valorizzarne le conquiste positive che sono cosa buona, frutto dell’intelligenza dell’uomo creata da Dio, e dimostrano che la nascita dell’universo non è legata al caso. Un confronto che occorre mantenere vivo. Al riguardo, il Pontificio Consiglio della cultura sta studiando l’idea di organizzare nel 2015, ‘Anno internazionale della luce’, un momento di riflessione sul concetto simbolico di luce tra scienza, filosofia e teologia.