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Sirio 09 - 15 dicembre 2024
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Musica

Giuseppe Verdi e la Scala,
storia d’amore e odio, infine felice

Fu un rapporto straordinariamente fecondo, quello fra il compositore di Busseto e il grande Teatro milanese. Ma non sempre facile nè idilliaco... Un profilo, come "apertura" del bicentenario della nascita di Verdi.

di Luca FRIGERIO

30 Gennaio 2013

«La Scala è la casa di Verdi», ricordava alcuni anni fa un sovrintendente del Teatro milanese. Che si premurava di aggiungere, a rintuzzare qualche immancabile polemica: «Verdi è l’autore più eseguito nelle stagioni della Scala: basti ricordare che dal 1844, da quando per la prima volta la Scala scelse una sua opera per aprire la propria stagione, il nostro teatro gli ha dedicato ben 58 serate inaugurali, contro le 16 riservate a Wagner, 8 a Rossini, e via di seguito». Vero, verissimo. Eppure, nonostante tutto, i rapporti tra Giuseppe Verdi e la Scala, soprattutto agli inizi, non furono sempre idilliaci.

Per il giovane bussetano trasferitosi nel capoluogo lombardo, il grande teatro di Milano rappresentava il sogno supremo. Seppur dopo qualche contrattempo, il suo Oberto era andato in scena con successo, nel 1839, seguito, però, l’anno dopo, dal fiasco di Un giorno di regno. Fiasco da cui aveva saputo prontamente riscattarsi con i trionfi di Nabucco e dei Lombardi alla prima crociata a Milano, dell’Ernani a Venezia e dei Due Foscari a Roma. A trent’anni, insomma, Giuseppe Verdi aveva già conosciuto uno straordinario successo ed era conteso dai più importanti teatri italiani.

La qual cosa non poteva certo dispiacergli, soprattutto perché i suoi rapporti con la Scala erano andati via via deteriorandosi. Nel dicembre 1844, per la ripresa dei Lombardi, aveva dovuto sudare le proverbiali sette camicie per rimettere insieme lo spettacolo. «Egli grida che pare un disperato», osservava Emanuele Muzio, l’unico vero discepolo di Verdi. «Batte tanto i piedi che pare suoni un organo colla pedaliera; suda tanto che gli cadono le gocce sullo spartito».

La rabbia di Verdi giunse al colmo poche settimane più tardi, con la mal riuscita rappresentazione della sua Giovanna d’Arco, seguita da trattative segrete, fatte a sua insaputa, per vendere l’opera. «Verdi trasecola», scrive Franco Abbiati nella sua biografia del compositore. «E, indignato, si risolve. Alla Scala egli non metterà più piede, né in qualità di compositore, né in qualità di assistente alla messa in scena: pertanto respinge, non proprio villanamente ma più bruscamente che può, l’offerta scaligera di stringere nuovi patti per nuove opere».

La rottura fu dunque inevitabile, e da quel momento Giuseppe Verdi non scrisse più niente per la Scala. Vi ritornerà solo 24 anni più tardi, nel 1869, per l’edizione italiana della Forza del destino. A confermare la sua decisione giunse anche la disastrosa prima rappresentazione di Attila al teatro milanese, in cui il pubblico scoppiò più volte a ridere vedendo il sole alzarsi fuori tempo, un mare in tempesta in realtà calmissimo, un temporale svolgersi a ciel sereno…

«Io non scriverò mai più per un teatro dove si assassinano le opere in quel modo», si sfogò con un amico. E poi, al colmo del furore, accettò il contratto che Ricordi gli aveva proposto per ilMacbeth da portare in scena a Firenze solo alla condizione che l’editore non ne permettesse la rappresentazione ala Scala. «Ho troppi esempi per essere persuaso che qui non si sa o non si vuole montare come si conviene le opere, specialmente le mie… Queste condizioni che ora metto pel Macbeth, da qui in avanti le metterò per tutte le opere». E infatti nei contratti con Ricordi per la Battaglia di Legnano, per lo Stiffelio, e per altre opere ancore ricorre sempre la medesima formula: «per farla rappresentare in uno dei primi teatri d’Italia, salvo il teatro alla Scala».

Ma ben presto Giuseppe Verdi dovette accorgersi che non era solo la Scala a scontentarlo. Rispetto al suo ideale assoluto di perfezione teatrale, al realtà era alquanto desolante. Dopo aver lavorato in tutti i più grandi teatri d’Europa, la conclusione del maestro di Busseto era alquanto sconsolante. «Tante e tante volte ho sentito a Milano dirmi: la Scala è il primo teatro del mondo. A Napoli: il San Carlo primo teatro del mondo. A Pietroburgo: primo teatro del mondo. A Parigi poi l’Opera è il primo teatro di due o tre mondi!», raccontava con tagliente ironia ad un’amica, la contessa Maffei. Solo il teatro di Vienna, negli anni Cinquanta, parve soddisfarlo veramente. Ma fu un’illusione di breve durata, e dovette ricredersi anche sulla famosa organizzazione austriaca.

Fu dunque sulla base di queste deludenti esperienze che Verdi si lasciò convincere a tornare alla Scala. Non senza riserve, tuttavia. «Verrò io steso a Milano per fare le prove che crederò necessarie…», disse a Ricordi nel dicembre 1868, alla vigilia della Forza del destino. «Non voglio avere nulla a che fare con l’impresa della Scala; non voglio essere messo sul cartellone e non resterò alla prima rappresentazione, la quale non potrà darsi senza mia permesso».

E tuttavia si era a poco a poco ammansito. Nella nuova situazione sociale e politica, cioè con l’Unità d’Italia, la Scala era indubbiamente salita di livello, uscendo da quel marasma in cui era caduta nella prima metà del secolo.

E Verdi cominciò ad appassionarsi al teatro in sé e per sé, indipendentemente dalle sue opere, interessandosi a problemi generali della gestione dei teatri d’opera e ai problemi particolari della Scala. Scala che ora, anche nella considerazione del grande compositore, era destinata a diventare veramente «il primo teatro del mondo».