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Ricordo

Franco Loi: «Noi poeti che come i cani abbaiamo alla luna…»

Tra i maggiori poeti italiani del nostro tempo, scrittore e critico letterario, è morto a 90 anni. Nato a Genova nel 1930, si era trasferito a Milano giovanissimo, dove aveva iniziato a produrre le sue poesie in dialetto milanese, tra l’epica popolare e l’intimismo lirico. Lo ricordiamo con una nostra intervista, raccolta nel 2002 in occasione dell’uscita del suo libro “Isman”, in cui racconta il suo rapporto con la poesia, con gli uomini e con Dio.

di Luca FRIGERIO

7 Gennaio 2021

C’è l’attimo, nella poesia di Franco Loi. C’è l’emozione improvvisa, il ricordo che taglia, il dubbio che scava. E poi la gioia per una voce lontana, la rabbia per la stupidità del mondo, la nostalgia di una Presenza, a cui andare incontro, da cui farsi abbracciare. «Isman», la sua raccolta poetica, rimane a lungo nel cuore, come un sussurro, come una vibrazione.

Musica e non parola appare davvero il suo scrivere. Ritmi più che versi, espressi in quel codice degli affetti, in quel patrimonio di esperienze che per Loi è il meneghino, la lingua della gente semplice, di chi fa, di chi pensa, di chi sogna. E che Franco sia genovese di nascita, e che la sua cittadinanza ambrosiana sia “soltanto” d’azione, poco, anzi nulla importa.

«Essere uomo ed essere poeta…». In fondo è tutta qui la questione. Cosa distingue chi crea liriche, chi racconta la realtà per immagini, chi getta su una tela sprazzi di vita da chi non lo fa, da chi resta a guardare, o ad ammirare? «Vèss om e vèss puèta…», scrive Franco Loi, e ce lo ripete con sguardo sorridente, e ce lo spiega con pazienza paterna. Perchè noi abbiamo bisogno di capire.

Allora, “cos’è” essere poeta?
Per me essere poeta “è” essere uomo. Tutti gli uomini, ne sono convinto, hanno in potenza la capacità di esprimere la poesia.

Eppure, non tutti gli uomini scrivono versi…
No, ma non perché non ne abbiano la possibilità, ma perché non sono abbastanza attenti, o perché sono troppo pigri… Il poeta, invece, è uno che ascolta. Lo dice bene Dante: «Io sono uno che quando l’amore m’ispira, noto…», cioè prendo nota, ascolto. A tutti capita di essere attraversati da un pensiero, di provare un’emozione o di rimanere colpiti da un’immagine: ma tutto ciò, per la maggior parte delle persone, va perduto dopo qualche istante. Il poeta invece lo traduce in scrittura. La differenza, dunque, è solo nell’attenzione e nella sensibilità (direi addirittura nella “caparbietà”) con cui si osserva la realtà che ci sta attorno.

Essere poeta, dunque, è un privilegio?
Senza dubbio. Perché si ha la possibilità, attraverso l’ascolto e l’espressione, di crescere, di conoscere di più gli altri e se stessi. E si soffe di meno.

Davvero? Ma non si dice, di solito, «più coscienza, più dolore»?
Sì, lo si dice, ma non è vero. È vero il contrario, e cioè che chi cresce in coscienza si addolora solo per le cose veramente importanti.

Quali?
C’è un dolore di fondo, che è presente in tutti gli uomini, ed è quello di non poter vedere Dio. E c’è poi l’amarezza per il male nel mondo. Ma, proprio grazie alla poesia, io ho imparato a non soffrire più per delle sciocchezze, a essere meno ansioso, a dare il giusto valore alle cose.

E a cos’altro le è servita la poesia?
Ad arrivare, diciamo così, a una fede. La fede, come dice san Paolo, è sostanza di cose sperate e d’argomento. È “sostanza” perché è la fede che ci fa vivere e che ci permette di affrontare la vita, che ci spinge a confrontarci con l’ignoto. Noi non sappiamo cosa ci accadrà all’alba di un nuovo giorno, ma abbiamo fiducia: ci alziamo, camminiamo, lavoriamo, incontriamo altre persone, facciamo progetti… Ma la fede è anche “argomento”, perché, non potendo vedere il Mistero, a noi non resta che discutere e arrovellarci attorno alla verità. In questo senso la poesia mi ha aiutato molto, illuminando tante cose, contribuendo ad eliminare dalla mia vita diverse scorie…

La poesia, dunque, è uno strumento con cui interpretare la realtà. O no?
“Interpretare” vuol dire anche trarre delle teorie, ma non è questo che fa il poeta osservando la realtà. E neppure lo scienziato, a ben vedere. Noi abbiamo bisogno di schematizzare la realtà, ma essa, alla fine, va sempre oltre i nostri schemi e le nostre teorie. Il poeta, allora, non interpreta la realtà, ma l’affronta e si confronta con essa. E si lascia dire… Io ho imparato un poco alla volta. Prima anch’io “costruivo” poesie, ma col tempo ho capito che la poesia o ci attraversa o non è.

Lei parla della “poesia” come se questa avesse una vita propria…
La poesia è movimento, come l’emozione (che infatti deriva dal latino emovere, cioè “muovere da”…). E nella nostra vita abbiamo “emozioni” di tutti i tipi: movimenti del corpo, dei sensi, del pensiero, degli affetti… Movimenti che suscitano in noi un legame, a volte perfino una simbiosi, con la cosa stessa che ha provocato quell’emozione, sia essa la natura, una persona o un oggetto. E questo, non sappiamo ancora perché, provoca un suono, che a sua volta si dispiega in un ritmo che “misteriosamente” ci mette nelle condizioni di afferrare sequenze di parole. È a questo punto che si genera la poesia.

E cosa dice questa poesia?
Non necessariamente cose “nuove”, perché i temi fondamentali dell’uomo e della sua vita sono sempre gli stessi, in tutte le epoche e in tutte le società. Nuovo, semmai, è il modo con cui il poeta, di volta in volta, parla di queste cose. Nuovo può essere, infatti, l’approccio con il mondo; nuova può essere la lingua con cui ci si esprime; nuova è la cultura… Sembra quasi, cioè, che il poeta (così come il musicista o l’artista) sia indotto a riproporre continuamente il rapporto dell’uomo con il reale, che certi poteri e certe forze vorrebbero invece tenere sotto controllo o perfino eludere.

Persone scomode, i poeti…
Come i santi, del resto, che difficilmente sono ben accolti dai loro contemporanei perché sono duri: amano molto, ma esigono molto. E non è un caso che grandi santi sono stati anche grandi poeti. Dirò di più: il poeta, anche il più piccolo, è sempre un profeta. Profeta magari di cose da poco, ma pur sempre profeta. Perché, come i profeti (o come i cani che abbaiano alla luna…), chi è veramente poeta è “costretto” ad ascoltare ed ad esprimersi. «Il mistico tace, il poeta parla», dicevano i monaci antichi. Ma, in fondo, l’atteggiamento è lo stesso, perché anche il poeta, come il mistico, non può che stare in silenzio davanti al Mistero.

La poesia, quindi, è per lei una “costrizione”?
Per me è una necessità. Una piacevole necessità. Alcuni parlano della fatica dello scrivere, ma io, francamente, non scriverei se dovessi far fatica. Io scrivo perché mi diverto, perché mi mette allegria, perché nel farlo provo una grande energia. Scrivere, per me, non è mai un tormento. Magari si scrive di cose tormentose e tormentate, ma lo scrivere è sempre una gioia. E sono arrivato al punto che non mi escono più pensieri, ma versi…

Pochi, tuttavia, sembrano apprezzare la poesia, almeno rispetto ad altri “mezzi” di comunicazione… Forse perché è troppo difficile? È “roba” da intellettuali?
La poesia, quella vera, è come la grande musica o la grande arte: ha la capacità di essere capita da tutti e a tutti i livelli. Non c’è bisogno di aver studiato per entrare in sintonia con essa, non occorre una particolare evoluzione intellettuale per comprenderla… Basta essere dotati di amore e di capacità d’ascolto. Anzi, la poesia si rivolge di preferenza proprio alle persone più semplici, e dice loro: osservate la bellezza delle forme attorno a noi; guardate quanto male, quanto dolore viene provocato dagli uomini; e soprattutto sappiate che la realtà è ancora Mistero…

Lei prima parlava della fede. Qual è il suo rapporto con Dio?
Io ho fede, ma mi sento ancora lontano da Dio. Vorrei diventare strumento di Dio, vorrei essere completamente in Lui. Ma la testa pensa e ha dubbi. Il pensiero umano analizza, divide: io credo che Lucifero fosse troppo intelligente… L’amore, invece, è movimento, è l’andare l’uno verso l’altro. Se io penso Dio, se lo servo, se lo amo, allora sono in Lui. Se invece non penso Dio neppure ho la vita, perché la vita diventa soltanto fatica e dolore. Il viaggio che Dante racconta nella sua «Commedia» è proprio questo, ed è in fondo il viaggio di ogni uomo: arrivare a essere in Dio.