Ancora oggi è motivo di meraviglia che il crollo del muro di Berlino, uno degli avvenimenti che ha cambiato la storia del mondo, sia avvenuto 25 anni fa, il 9 novembre 1989, senza un morto. Forse perché si è trattato di una rivoluzione germinata spontaneamente nella coscienza popolare, attorno a qualche parrocchia protestante e a mal tollerate, dal regime, associazioni di tutela dei diritti umani; e si fa memoria delle silenziose, pacifiche, massicce manifestazioni di folla. Tutto era maturato durante l’estate, trovando uno sfogo in settembre con l’apertura del confine ungherese con l’Austria, attraverso il quale erano fuggiti centomila cittadini tedesco-orientali, mentre fiorivano, nelle principali città, le iniziative della preghiera serale per la pace.
Il 7 ottobre a Berlino furono eseguiti arresti fra i diecimila contestatori del 40° anniversario di fondazione della Repubblica Democratica Tedesca. Nelle stazioni di servizio delle autostrade apparivano cartelli con la scritta: “Andate a dimostrare. Vi seguiremo!”. A Dresda il Teatro Lirico di Stato festeggiava la ricorrenza con il“Fidelio” (un simbolo della libertà di coscienza) di Ludwig van Beethoven, messo in scena dietro una cortina di filo spinato. A Lipsia si radunavano 70mila persone, facendo entrare in crisi, con il loro atteggiamento non violento, gli apparati repressivi. La storia dirà che i dirigenti comunisti cominciarono ad avere paura. Per loro, nel giro di un mese, è la fine: crolla a Berlino, dopo 28 anni e 87 giorni, il “baluardo del socialismo” eretto il 13 agosto 1961, e che appena un mese prima l’ultimo dittatore, Erich Honecker, aveva dichiarato “eterno”.
Da quella notte, in trecento giorni si conclude la riunificazione, con la firma, il 31 agosto del 1990, delle mille pagine del trattato. In una sequenza di avvenimenti tutti all’insegna della pace, del dialogo, del negoziato, per merito del cancelliere Helmut Kohl e del suo ministro degli esteri Hans-Dietrich Genscher, che si attaccarono come ostriche all’articolo 23 della Legge Fondamentale, per la quale era sufficiente un voto della Camera popolare della Germania Est per entrare nella Repubblica Federale.
Il duo Kohl-Genscher sparigliò un gioco che tendeva a decidere del destino dei tedeschi senza di loro. Un’isterica Margareth Thatcher gridò senza cautele, in un vertice della Comunità Europea del dicembre 1989: “Abbiamo sconfitto due volte i tedeschi, eccoli che tornano”. Pochi volevano la Germania unita, nonostante gli auspici, ripetuti per decenni dagli alleati occidentali, di una riunificazione che si era ritenuto non potesse mai verificarsi. Si trattò di una lotta, all’inizio, contro le potenze vincitrici, la maggioranza dei membri dell’Onu, qualche perplessità della Cee e della Nato. Il presidente francese François Mitterrand era d’accordo con la premier inglese e con il sovietico Mikhail Gorbaciov sull’improponibilità dell’unificazione. Soltanto il presidente americano, George Bush padre, ammise che si trattasse di un’ipotesi possibile, purché la Germania garantisse la propria permanenza nell’Alleanza atlantica.
Con tenacia Kohl fece prevalere l’idea che i negoziati fossero condotti non dagli ex vincitori più le due Germanie, ma dalle due Germanie con gli occupanti, riuscendo a vincere ogni perplessità. Folle di tedeschi dell’Est manifestavano all’insegna dello slogan “Noi siamo un popolo”, gli americani si convinsero a sostenere il progetto della “Wiedervereinigung” e piegarono i britannici, reticenti sino all’ultimo, mentre i francesi non erano in grado di opporsi. I russi, che avevano un drammatico bisogno di soldi, si arresero dinanzi a un fiume di cinquantacinque miliardi di marchi. Così Gorbaciov, nel suo pragmatismo, in un incontro con Bush a Washington ammise che i tedeschi avessero il diritto di decidere sul proprio destino. A Mosca il 12 settembre 1990 fu firmato il documento con cui si dichiarava conclusa l’occupazione e nasceva la nuova Germania.
Non tutti i problemi, certamente, sono risolti, non tutti i “muri dello spirito” sono stati demoliti. Circola ancora nell’est tedesco, pur se molto attenuata rispetto ai primi anni, la sensazione di essere stato un territorio di conquista. Saranno necessarie un paio di generazioni, secondo lo storico e filosofo Tito Schabert, perché si perfezioni l’amalgama. Ma non mancano i segni. Come il grande affetto della gente, in un Paese largamente scristianizzato, per la luterana “Frauenkirche” di Dresda, la Chiesa di Nostra Signora, distrutta nel 1945 dai bombardamenti alleati e lasciata com’era dal regime comunista. E’ stata ricostruita interamente con il contributo popolare, da grandi donazioni a offerte di dieci euro provenienti da tutta la Germania, protestante e cattolica, e addirittura dai piloti alleati che avevano raso al suolo la città. E’ un frutto del dopo-muro, simbolo al tempo stesso della riunificazione, dell’ecumenismo e della pace fra i popoli.