20/11/2008
di Silvio MENGOTTO
Nel quartiere Brancaccio di Palermo con padre Pino Puglisi collaborava la giovane suora Carolina Gavazzo, aiutata da una piccola comunità di suore. Dopo anni suor Carolina ha scritto questo libro sulla vita di padre Puglisi che, come scrive nella presentazione il vescovo Giancarlo Maria Bregantini , sono «tante le ferite raccontate, ma non sono descritte con il gusto sadico dello specialista, ma con l’animo materno dell’educatrice, che vi vede delle ferite da guarire, trasformando le ferite in feritoie».
Il 15 settembre 1993, dopo molte intimidazioni mafiose, viene ucciso padre Pino Puglisi. I suoi ultimi tre anni di vita pastorale sono trascorsi nella parrocchia di San Gaetano a Brancaccio, un quartiere ad alta densità mafiosa e profondamente degradato, carenti le strutture scolastiche e sanitarie, mancanza di spazi di gioco, una realtà che obbligava bambini e adolescenti a vivere in strada. Proprio dalla strada inizia il cammino pastorale di padre Puglisi con l’obiettivo di strappare i ragazzi dalla rete mafiosa che si nutre, si radica, incominciando dall’ignoranza quale ferita sociale, che conduce alla morte della coscienza.
Educare per lui significava proprio passare dalle ferite alle feritoie. E’ difficile parlare di cultura, istruzione a ragazzi che, al Brancaccio, vivono problemi più grandi di loro. Proprio per questo padre Puglisi era convinto che un prete appartenesse anche al quartiere dove deve sporcarsi le mani, non il cuore, con i problemi. Un sacerdote «è chiamato a rimboccarsi le maniche per creare ordine e pulizia, trasparenza e civiltà morale e civile, promozione sociale per migliorare la qualità di vita di tutti e di ciascun cittadino, per renderlo poi figlio di Dio. Non si può dividere l’umano dal divino».
Puglisi era un attento osservatore, guardava molto e parlava poco. Il valore che amava di più era il volontariato che non era predestinato ai soli cattolici. Diceva che «il volontariato era un gesto d’amore che chiunque poteva compiere, senza preclusione o esclusione alcuna». Partiva sempre dai più piccoli e fragili, per loro organizzò il Centro aggregazione “Padre Nostro” dove riuscì a sviluppare esperienze positive per i ragazzi togliendoli dalla strada.
Per il vescovo Giancarlo Bregantini Puglisi «non parte dalla cattedra, ma dalla strada. E porta comunque alla cattedra, poiché pone degli itinerari pedagogici di vero stupore, fatti di libertà e gioia». In un certo senso Puglisi era l’uomo dello stupore, si stupiva senza il bisogno dei miracoli. La realtà del Centro “Padre Nostro” era «una risposta ai poveri, risposta ad un quartiere che mancava di tutto». Le iniziative erano svariate: visite domiciliari ad anziani e malati, recupero dei minori, attività con famiglie disagiate, formazione dei volontari. Nel Vangelo di Giovanni (Gv 8, 31) si legge «la verità vi farà liberi», per questo la preoccupazione maggiore di padre Puglisi era quello di liberare dall’ignoranza i ragazzi del Brancaccio. Sovente diceva: «Dobbiamo liberare la gente dall’ignoranza perché l’uomo che non sa, non conosce, non cresce e non dà un contributo costruttivo alla crescita degli altri».
Figli del vento sono i ragazzi di strada, chiamati anche nel dialetto locale “picciotti” o “scugnizzi”. Loro «non hanno una meta fissa, vivono sempre fuori, all’aperto, per strada, ignari di un destino che li attende per divorarli, strumentalizzarli, usarli, e, infine, ingoiarli». «Sembrano storie di libri e di telenovele che non ci toccano e invece queste vite sono ad un passo dalle nostre realtà o sono addirittura accanto a noi, nei nostri quartieri ».
Un giorno padre Puglisi disse: «Non lasciate il mio corpo troppo solo» . Voleva dire: «Continuate voi la mia attività con i ragazzi, con i figli del vento. Continuate voi la mia speranza, realizzate voi il mio sogno».
Carolina Gavazzo
Figli del vento. Padre Puglisi e i ragazzi di Brancaccio
San Paolo (pp.105, euro 8)