Questo tempo in cui dobbiamo convivere con un virus sconosciuto ci ha reso tutti più timorosi. Ma anche Carlo d’Amboise, nel lontano 1507, aveva paura. Lui aveva paura di diventare cieco proprio quando, a neppure trent’anni, aveva preso la guida di un ducato ricco e fiorente come quello di Milano. Paura di non potere più vedere i volti amati, di essere condotto per mano come un invalido, di vivere tutti i giorni a venire come un’unica, interminabile notte.
I medici non avevano saputo fare molto. Di maghi e ciarlatani, poi, il D’Amboise non ne voleva più sapere. Eppure qualcuno gli aveva acceso un’ultima, remota speranza. C’era una fonte, gli avevano detto, che guariva i mali del corpo di chi aveva fede con l’anima. Si trovava tra i campi oltre le mura della città, fuori Porta Comasina, e già da secoli, devotamente, la gente andava a quell’acqua benedetta, invocando il nome di Maria.
Il governatore si fece allora pellegrino, si bagnò anche lui e pregò. E in cuor suo, solennemente, promise che in caso di guarigione avrebbe fatto sorgere in quel luogo un nuovo tempio in onore della Vergine. Al cielo piacque che quell’impegno fosse onorato. Il disturbo alla vista, infatti, scomparve: Carlo guarì, e lui stesso, nitidamente, potè osservare la posa della prima pietra del nuovo santuario.
I lavori procedettero speditamente, anche per il concorso di alcune tra le più nobili, e ricche, famiglie d’oltralpe. Per il progetto, il D’Amboise potrebbe essersi rivolto perfino a Leonardo, che in effetti aveva appena fatto rientrare a Milano da Firenze. Della diretta partecipazione del genio toscano al cantiere rinascimentale di Santa Maria alla Fontana, in verità, non vi sono prove documentarie, e tuttavia questa appariva proprio come una di quelle sfide che il Da Vinci amava affrontare: uno spazio architettonico armonioso da costruire in un ambiente naturale non facile, ma tremendamente suggestivo. Idee, soluzioni e impianto di cui sembra rimanere traccia anche in alcuni schizzi nel Codice Atlantico, che l’Amedeo avrebbe poi concretizzato.
La fonte, resa prodigiosa dalla presenza mariana e dalla fede degli uomini, doveva essere il cuore del nuovo santuario. Attorno ad essa venne realizzato un luogo appartato per la preghiera, quasi una cripta nella naturale depressione del terreno, ma allo stesso tempo pensato come uno spazio aperto e arioso, per favorire il passaggio dei pellegrini, specialmente dei malati, che potevano trovare conforto nella farmacia-sacrestia annessa, e anche alloggio in alcune costruzioni adiacenti. Al corpo centrale, così, si univano i chiostri, modulati su vitruviane proporzioni, dove il dentro e il fuori, le luci e le ombre, il paesaggio agreste e l’architettonica costruzione si compenetravano in un gioco continuo e sapiente, che oggi lascia ancora ammirati, sebbene molte siano state le trasformazioni.
I primi custodi della Fontana furono i monaci benedettini di San Simpliciano, sotto il cui sguardo ebbe inizio anche la decorazione del santuario, con alcuni affreschi attribuiti alla scuola del Luini, dove alla dolcezza dei volti si unisce un gusto naturalistico tutto lombardo. Eccezionale, in considerazione soprattutto della sua rarità, l’ornato a grottesche dell’ex sacrestia, con intrecci e racemi in cui si riconoscono figure simboliche come l’ibis (uccello sapienziale secondo la Bibbia), il caduceo (la verga alata emblema della medicina), il sole raggiato (che rimanda alla divina Provvidenza).
Il programma pittorico proseguì con i frati minimi di san Francesco di Paola, giunti all’agreste tempio milanese a metà del XVI secolo. Nuove scene furono aggiunte sui pilastri del sacello, ma soprattutto venne affrescata la singolare volta “a ombrello”: nei dodici spicchi, i dodici apostoli in un carosello celestiale dai toni squillanti e dalla vivace espressività dei volti. Una divina raggiera che ha il suo centro nel Dio Padre benedicente, astro d’amore e di beatitudine che rifulge di luce: una figura che si è voluto far emergere non solo simbolicamente, ma anche materialmente, non essendo soltanto dipinta, ma scolpita in legno e modellata in stucco, databile a pochi anni dopo l’avvenuto miracolo.
Sempre all’ultima parte del Cinquecento è da far risalire la grande tela posta dietro l’altare, per cui si fanno i nomi dei fratelli Campi, in cui la Vergine col Bambino è attorniata da cherubini e dagli arcangeli Michele e Gabriele, mentre ai suoi piedi si vede un uomo prima malato e prostrato, poi guarito e orante. Forse si tratta dello stesso Carlo d’Amboise. Ma in fondo è l’immagine di noi tutti, bisognosi di essere risanati, nello spirito ancora prima che nel fisico, alla fonte della vera vita.
La parrocchia e il santuario di Santa Maria alla Fontana a Milano fanno parte della Comunità pastorale intitolata a “Maria Madre della Misericordia”, sul cui sito si possono trovare tutte le informazioni utili (www.mariamadredellamisericordia.it ).