Dopo la proclamazione del Regno d’Italia, il 17 marzo 1861, i fatti connessi alla formazione dello Stato nazionale, chiamavano i cattolici a risolvere il problema della loro posizione di fronte alla vincitrice “Rivoluzione” liberale, problema che proprio in Italia si presenta più articolato e ricco di motivi in quanto strettamente legato a quelli dell’abolizione del potere temporale e dell’indipendenza del Pontefice.
In coincidenza a quella crisi che Francesco Traniello ha indicato come la «sconfitta del neoguelfismo», in gran parte legata agli eventi del 1848-49, lo Stato unitario nazionale, negli anni sessanta dell’Ottocento, pone i cattolici italiani di fronte ad un problema ben chiaro: se transigere con la società moderna, in particolare limitando le prerogative temporali della Chiesa nel nuovo assetto della penisola italiana, o se respingere qualsiasi concessione in materia.
Ovviamente, nell’ambito di un problema così delicato e complesso, non mancano le posizioni intermedie, interessate a trovare un punto di conciliazione con il neonato Stato unitario, salvaguardando le prerogative spirituali di Pio IX, quale capo della Chiesa universale e limitando le mutilazioni territoriali a danno dello Stato Pontificio.
Roma capitale e antitemporalismo
L’atteggiamento di Alessandro Manzoni di fronte alla questione romana può essere spiegato attraverso una duplice preoccupazione, manifestata dal poeta nel corso degli ultimi anni di vita: la realizzazione di uno Stato nazionale italiano unito dalle Alpi alla Sicilia e con Roma capitale e, in un secondo momento, la scelta dell’antitemporalismo come risposta del mondo cattolico di fronte alla contemporaneità. Entrambi questi aspetti corrispondono ad un’esigenza particolarmente sentita dall’autore dei Promessi Sposi: la necessità di consolidare lo Stato nazionale appena sorto e di non sottrarre ai cattolici italiani il compito di contribuire all’affermazione di quel «sacrosanto diritto» di nazionalità, di cui egli parla apertamente nel saggio dedicato al confronto tra Rivoluzione francese e Rivoluzione italiana.
Secondo Manzoni, non vi è opposizione tra l’essere cattolico e l’essere cittadino italiano, come non vi è antagonismo tra Fede ed amor di patria.
Manzoni, già nel 1858, biasima apertamente, nel corso di un incontro con un religioso benedettino francese, coloro che non «sanno distinguere nel Papa il sommo Pontefice dal principe; come principe, lo veggono legato strettamente coi nemici dell’Italia; come principe, attribuiscono in gran parte a lui, non senza ragione, il presente avvilimento della patria comune. La spada nuoce al pastorale. […] Magro compenso […] l’aver Roma capitale nel mondo cattolico, e tutto il resto dell’Italia o direttamente o indirettamente serva dello straniero. Per noi lombardi p.e. che cosa di più è il Papa per noi che per i Francesi? E se, per avere il Papa nel seno della Francia, dovesse questa andar divisa in pezzi ed ubbidire allo straniero, io tengo per certo che Vostra Paternità deporrebbe in tal senso il suo abito da monaco, e prenderebbe in mano il fucile per preservare il suo paese da un tale flagello».
In questo colloquio, Manzoni parla della città di Roma quale «capitale del mondo cattolico», rivestendo quindi la Città Eterna della sua peculiarità universale, ma allo stesso tempo, appare evidente la stretta connessione di essa con il problema nazionale italiano.
Infatti, Roma è sicuramente l’indiscussa capitale del cattolicesimo universale, ma riveste un ruolo di profondo significato anche per l’Italia: la storia di Roma gli impone una sorta di venerazione per il suo carattere unitario, poiché l’idea dell’unità d’un popolo, il popolo italiano futuro, domina alla vigilia del ’48 l’animo del Manzoni che, ormai sessantenne, pensando Roma pensava l’Italia. E fu questa la ragione più profonda della sua più volte affermata fede in Roma capitale: smantellata e derisa fin dagli anni giovanili la retorica scolastica e antieducativa della storia romana, l’anziano poeta poteva ormai guardare tranquillamente a Roma antica come al simbolo precursore dell’unità nazionale degli Italiani.
Roma: due podestà, due canizie
Roma è il centro di «due podestà, due canizie», anzi «due esperienze consumate», cattolicesimo e identità italiana, come Manzoni scriverà nel 1872 alla municipalità romana, ma non per questo essa deve divenire il pomo della discordia dei cattolici italiani: la realizzazione del nuovo Stato nazionale diviene un motivo sufficiente per farne l’eletta, naturale capitale d’Italia e per accendere, nel medesimo tempo, una riflessione più profonda sulle prerogative temporali del Pontefice.
Tuttavia, è importante sottolineare come il patriottismo manzoniano, pur avendo un carattere intransigente, nemico di qualsiasi soluzione federale, alla quale guardavano invece con simpatia Rosmini e il movimento neoguelfo, non sfociò mai in nazionalismo estremo ed aggressivo: gli odî tra le nazioni e le conseguenti guerre di conquista sono da lui apertamente riprovati.
Manzoni è sinceramente convinto della necessità di giungere alla soluzione della questione romana attraverso una conciliazione tra Stato e Chiesa, ma è altresì convinto della necessità di porre fine alla sovranità temporale del Papato.
In realtà, la preoccupazione di Manzoni era anche più squisitamente pratica e legata alle problematiche contingenti: egli, annota Stefano Stampa, aveva in un primo momento analizzato l’ipotesi di concedere una limitata sovranità a Pio IX su alcuni territori appartenenti allo Stato Pontificio, ma aveva finito per convenire, con il consueto realismo storico-politico che lo caratterizzava, che tale soluzione avrebbe portato alla nascita di «un regno troppo debole per difendersi da sé, e che per esser mantenuto e difeso abbisognava per l’appunto che il Papa si diminuisse la propria indipendenza, volgendosi di preferenza verso quella potenza che meglio glielo difendeva, e colla quale, a mala voglia, usava parzialità».
Non confondere cielo e terra
Dunque, dapprima Manzoni, almeno se si ritiene fondata la testimonianza del figliastro Stefano Stampa, aveva valutato soluzioni intermedie: «si sarebbe dovuto lasciare al Papa, Roma col Patrimonio di San Pietro. Poi la città con una striscia di terra sino al mare. Poi la sola Città Leonina».
Egli aveva finito per allontanarsi da questo tipo di soluzioni intermedie: il Pontefice avrebbe dovuto rinunciare a qualsiasi pretesa di carattere temporale, una scelta che avrebbe messo al riparo la Chiesa stessa da qualsiasi ingerenza del neonato Stato, poiché, secondo Manzoni, se dai concordati nasce «la religione legale e la Chiesa protetta», una Chiesa protetta è già «in qualche modo asservita».
Aveva confidato a Stefano Stampa: «Io piego umilmente la testa davanti al S. Padre e la Chiesa non ha figlio più rispettoso di me. Ma perché confondere gli interessi della terra e quelli del cielo? Il popolo romano, domandando la sua emancipazione, è nel suo diritto: vi sono delle ore, per le nazioni come per i governi, in cui non bisogna occuparsi di ciò che conviene, ma di ciò che è giusto».
Se è vero che il Risorgimento fu anche «un dramma di coscienze», certamente la drastica conclusione della questione romana, con un Pontefice dichiaratosi prigioniero dello Stato italiano, non poteva che accendere in Manzoni una sincera preoccupazione per le conseguenze a cui tale situazione avrebbe condotto.
Tuttavia, il poeta lombardo, negli ultimi anni, era convinto che tutti i cattolici italiani avrebbero presto finito «per distinguere il potere spirituale dal temporale».
L’ultimo Manzoni
L’ultimo Manzoni, pur se inascoltato nel suo appello a procedere con moderazione e nel tentativo di sollecitare un dialogo tra gerarchia politica ed ecclesiastica, che avrebbe dovuto portare al compimento dei destini di Roma quale unica e definitiva capitale d’Italia, in accordo con il Papato e con il consenso di tutti i cattolici, lascia un enorme contributo alla cultura cattolica.
Secondo Nicola Raponi, «il cattolicesimo liberale si era caratterizzato per alcune esigenze fondamentali; conciliare la missione universale e spirituale del Papato con il riconoscimento dello Stato nazionale; mostrare la compatibilità del messaggio cristiano con le conquiste della società moderna, del concetto di libertà con l’idea religiosa; accordare una teologia che avrebbe privilegiato sinora il principio d’autorità con una spiritualità basata sulla responsabilità personale e il rispetto della coscienza; restituire alla Chiesa l’identità originaria del Corpus Ecclesiae preservandola dalle ingerenze e dalle prevaricazioni del potere politico; infine sciogliere la Chiesa dalle tendenze eccessivamente centralizzatrici ripristinando la funzione delle Chiese locali e dei loro pastori. A ben vedere il Manzoni […] aveva ben rappresentato queste esigenze e ne aveva mostrata la pratica applicabilità nella sua opera e nella sua vita; per questo diventava per la coscienza cattolica un simbolo e un modello».
Manzoni, per usare le parole di Giorgio Candeloro, fu la figura che più d’ogni altro incarnò questa esigenza, definita «cattolico-liberale, non solo perché gli uomini più significativi di essa furono cattolici, ma soprattutto perché, come il De Sanctis mette bene in luce […], l’idea di conciliazione fra cattolicesimo e civiltà moderna ne costituì il fondamento dottrinale».
Se l’Ottocento era stato il secolo del costituzionalismo liberale, costituzionalismo che Manzoni aveva, fin dalla giovinezza, desiderato ed auspicato per il caso italiano, addirittura nella forma del voto mediante suffragio universale, con una partecipazione popolare alla costruzione del nuovo Stato unitario, esso trovava compimento solo in una prospettiva religiosa.
L’insegnamento etico-religioso manzoniano, dopo Porta Pia, saldamente intrecciato ad una forte tensione a quella libertà salutata come «vero presidio della religione», pone le premesse per un richiamo alla libertà politica più ampio, un principio che è possibile rintracciare come humus di quel terreno fertile su cui si formò un’intera corrente di pensiero cattolica, destinata a contribuire in modo determinante alla vita politica dello Stato italiano, tra Ottocento e Novecento.