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Società

«Così la crisi emargina»

Il sociologo della Cattolica Mauro Magatti: «Chi ha perso il lavoro da tempo subisce un processo di marginalizzazione, che colpisce anche ceti considerati immuni. Ci si può ritrovare da soli e demotivati, depressi, senza una prospettiva e in qualche caso anche avvitati in una sorta di spirale negativa»

di Pino NARDI

8 Aprile 2010

La crisi economica aggrava la possibilità di finire ai margini della società. Magari a fare la file alle mense per i poveri o addirittura a vivere per strada. Ne parliamo con Mauro Magatti, preside della facoltà di Sociologia all’Università Cattolica di Milano

Sofferenze urbane: come si diventa emarginati oggi nella metropoli?
Ci sono diversi processi che si accavallano e in parte si sommano. Da una parte ci sono fragilità legate agli effetti che si vanno rafforzando con la crisi. Questo è un aspetto importante: gente che perde il lavoro, soprattutto stranieri o disoccupati che cominciano ad essere anche di lungo periodo, persone che già da più di un anno e mezzo non hanno un’occupazione. Quindi tendono a subire un processo di marginalizzazione che in alcuni casi è anche molto forte. Dall’altra parte c’è la coda della fase precedente: tutte queste fragilità che derivano anche dall’inconsistenza dei rapporti personali e dal fatto che questi percorsi possono capitare anche in ceti che una volta sembravano lontani da questo tipo di situazioni. Ci si può ritrovare da soli e demotivati, depressi, senza una prospettiva e in qualche caso anche avvitati in una sorta di spirale negativa dentro cui si cade.

Insomma c’è una povertà quasi invisibile che però sta incominciando a emergere…
È invisibile per chi non la vuole vedere. È un fenomeno che ha una certa rilevanza. Già negli anni passati, ancora prima della crisi, stavamo parlando di una quota di persone che erano lasciate indietro, abbastanza consistente, e questa quota, negli ultimi due anni, sicuramente è aumentata. Ovviamente la maggior parte delle persone continua a stare bene, però il numero di coloro che sono in difficoltà è cresciuto molto.

Veniamo all’immigrazione: sembra che l’idea dell’integrazione o della non esclusione sia quasi solo un pallino del mondo cattolico. C’è il rischio che ricada esclusivamente sulle spalle del volontariato?
In questo ping-pong tra quelli che sono contro gli immigrati e quelli genericamente pro, ne è andata di mezzo la capacità del Paese di impostare e realizzare pratiche sensate nei confronti di questa popolazione che, come sappiamo, si è integrata da un lato attraverso la via economica (il mercato del lavoro e i consumi) e dall’altro con qualche canale istituzionale un po’ per caso (scuola, acceso agli ospedali), perché era già preesistente. Il terzo canale è il volontariato, quasi tutto di matrice cattolica. Quindi, nel momento in cui arriva la crisi, nell’assenza di un discorso pubblico minimamente organizzato su cosa ne facciamo di queste persone (se e come li rendiamo cittadini, a quale condizione, con quali vincoli e diritti), è chiaro che l’onere poi va a finire su quelli che hanno la disponibilità a farsene carico e che sono, appunto, i soggetti che dicevo.

L’idea della formazione dei volontari è un punto fondamentale per affrontare queste dinamiche sociali così complesse?
Sì. Questa è una consapevolezza molto cresciuta nel volontariato in Italia negli ultimi 25 anni. In linea di principio è stata acquisita, anche se non sempre poi troppo concretamente questo si realizza. Ma è un volontariato maturo che sa che bisogna andare in questa direzione.

Spesso la politica usa la questione dell’immigrazione e della grave marginalità soprattutto in termini di sicurezza. Invece la politica cosa dovrebbe fare per dare risposte anche a questa fascia di popolazione?
In un quadro generale con un modello economico legato alla competitività, poi alla crisi, gli immigrati hanno svolto un ruolo strategico in quella che viene chiamata la “politica della paura” e che diventa uno strumento di competizione politica. Questa, purtroppo, spesso è andata a discapito di un confronto orientato a conoscere i termini del problema, a proporre percorsi ragionevoli e dotati di senso rispetto alle questioni che avevamo davanti. Quindi, si sono preferiti da una parte e dall’altra, slogan e strategie comunicative piuttosto che accettare l’idea che questo problema esiste, ha bisogno di risposte, fondamentalmente richiede a un Paese di dire che cosa offre e in cambio cosa chiede a quelli che devono essere visti come nuovi cittadini. Poiché in Italia già non si capisce con chiarezza questo scambio tra il cittadino e il “pubblico” per il nativo, risulta particolarmente difficile fare questo discorso poi a chi arriva da fuori.