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Gocce di cultura

María Zambrano, All’ombra del dio sconosciuto – Antigone, Eloisa, Diotima

Pratiche, 1997, Milano. A cura di Elena Laurenzi

Felice Asnaghi

30 Ottobre 2013

María Zambrano (Vélez-Malaga, 1904 – Madrid 1991) allieva di Ortega y Gasset e di Xavier Zubiri dell’università di Madrid, interprete molto attenta e sensibile dell’opera di Miguel de Unamuno e della poesia di Antonio Machado, fu tra le prime donne spagnole ad intraprendere le carriera universitaria in un contesto in cui la filosofa, nella Spagna degli anni trenta, era un’eresia.  La sua è una ricerca di equilibrio tra un razionalismo europeo e una rivitalizzazione della tradizione spagnola, al fine di non perdere il lato più poetico dell’uomo, il suo essere nel mondo. Il tema più ricorrente è il senso della vita che alberga nell’anima e si rivela in sogno e nell’immaginazione del divino. I poeti infatti rendono il mondo abitabile, i filosofi lo migliorano; in quanto agli uomini d’azione essi hanno perso la meraviglia e il mondo lo usano solamente.

Il libro è, di fatto, una lettura interpretativa che Elena Laurenzi dà delle lezioni che la Zambrano tiene negli anni quaranta con tema la donna e il suo ruolo nella società occidentale durante i secoli. Poi fanno seguito le relazioni originali della filosofa iberica. Uno studio di non facile lettura ma come tutte le pubblicazioni di valore per essere comprese hanno bisogno di essere lette e paragonate con la propria vita e le vicende della società odierna. In questa lunga prefazione la Laurenzi inizia col presentare il concetto di “filosofia vivente”. Una filosofia non astratta, non ingessata in citazioni di repertorio, ma risposta del pensiero all’urgenza della vita. Una filosofia non frammentata da varie discipline ma capace di recuperare un sapere integrale radicato nella vita. Eppure la scrittrice si presenta generalmente al pubblico non come filosofa ma come “un autor” perché questo autore “mi appare neutro e non maschile. Neutro perché e aldilà e non aldiquà delle differenze esistenti tra uomo e donna”.

Negli altri paragrafi del capitolo si ripercorrono le varie fasi della vita di María, soffermandosi sul periodo universitario dove il pensiero di professori del calibro di Ortega e Zubiri la affascinano e la formano intellettualmente. Perfino la malattia gli sopraggiunge come un dono, un momento privilegiato di silenzio e riflessione. Decide in quei mesi di abbandonare lo studio dei testi filosofici per vivere nella povertà della verità, “quella che va direttamente al cuore delle cose”, dove solo il sapere dell’esperienza ha valore perché segue i percorsi della vita, sostenendola, senza soffocarla con sovrastrutture concettuali. La sua ricerca della “ragione vitale” la induce a seguire un cammino di conoscenza ispirato alla poesia, alla mistica che fa leva sull’innamoramento inteso come momento in cui l’essere umano esperimenta il vero significato della vita attraverso un’apertura fiduciosa al reale, “un’innocenza originaria, verginità dell’anima”.

Sono anni difficili per la sua terra. Si schiera con i repubblicani e con la vittoria di Franco nel 1939, abbandona la Spagna per un esilio lungo quarant’anni. Come la malattia, l’esilio spalanca l’abisso della perdita del senso che crea quello spaesamento, quella estraneità a se stessi che prelude però alla guarigione. Si rafforza il senso dell’appartenenza alla patria, un cordone ombelicale mai tagliato.

 

Così è la patria, mare che raccoglie il fiume della moltitudine, il popolo in cui uno procede senza macchiarsi, senza perdersi tenendo lo stesso passo dei vivi e dei morti.

 

La curatrice  a questo punto prende in considerazione il motivo essenziale della pubblicazione stessa: la donna nella cultura occidentale (quindi la separazione dei sessi) e il suo ruolo nella società nei secoli. La separazione tra i sessi è una questione di portata ontologica, che segna l’intero percorso della storia dell’Europa. È dalla piena consapevolezza di questa scoperta che la scrittura filosofica di María Zambrano trae la sua capacità di scandalizzare, di costringere la cultura egemonica a confrontarsi con una radicale alterità. Tutta la sua opera è una critica globale e una sfida all’impianto maschile del pensiero occidentale. Lei intravede nella divergenza tra mondo maschile e femminile l’innesto tra il razionalismo misogeno della Grecia classica e il cattolicesimo ridotto a “religione dello spirito” che afferma l’immagine di un dio maschio. In questo senso la critica all’idealismo amoroso medievale evidenzia con straordinaria chiarezza la cancellazione della donna in carne ed ossa a vantaggio di un’immagine ideale, sacra e incorporea (si legga Beatrice di Dante). Una donna ideale trasformata in angelo del focolare dal quale l’uomo esige null’altro che quiete e onestà, una sostanziale passività, una rinuncia a essere, che salvaguarda da pericolosi voli pindarici dell’immaginario maschile.

 

La verginità, la rinuncia alle nozze è stata per secoli una scelta obbligata per le donne che non intendevano sacrificare il proprio essere in un’esistenza in funzione dell’uomo. La monaca e la cortigiana sono stati  i due più importanti propositi di individualità femminile: la donna che non è di nessuno si consacra a Cristo e quella che è di tutti; in mezzo resta imprigionata la donna dell’uomo, sposa, guardiana della tradizione e schiava del generico.

 

Il mondo domestico per María Zambrano assume un ruolo primario, esso non è solo il campo della riproduzione biologica, ma la complessa realtà della casa, in cui la vita si rigenera, si cura, si reinventa. Si fa evidente la consapevolezza che questo mondo anonimo è “il soggetto reale della storia”, perché la donna è la vera depositaria “dell’animo umano”.

 

Lo sguardo con cui una donna guarda a se stessa è differente da quello analogo dell’uomo. Per la vita umana è necessario sapersi o sapere qualcosa di sé, ma l’uomo acquisisce questo sapere in forma di idea o di definizione (la definizione è la forma tipicamente maschile della conoscenza). La donna invece suole vedersi vivere dal di dentro, senza definizione, in modo diretto, prescindendo dal personaggio che l’uomo ha bisogno di creare per vedersi vivere. È molto maschile vedersi vivere a partire da un’idea o un personaggio;  è femminile vedersi vivere dal di dentro come se lo sguardo provenisse dal centro situato oltre il cuore, ma sempre incarnato.

 

La ricerca della libertà segue strade differenti che si discostano da questa normalità femminile. La donna in alcuni esempi tramandati dalla letteratura (e dalla storia reale) si lancia nell’avventura umana senza lacci né radici, capace di trasformare la passione in sacrificio, ovvero nell’offerta consapevole di sé che prelude l’atto creatore:

 

Prima di raggiungere l’indipendenza bisogna offrirsi, come se qualcosa di quello che la vita è in forma spontanea dovesse essere assimilato e trasformato.

 

Esempi di queste figure “aurorali” sono Antigone, Eloisa (monaca parigina), Diotima sono donne che “osarono esistere con figura e vita propria”. Antigone, l’eroina della tragedia di Sofocle, si batte contro leggi spietate e violente; Eloisa è protagonista di una tragica storia d’amore in un mondo nel quale il potere maschile sembra voler conformare ogni situazione e ogni persona al proprio desiderio; Diotima è la profetessa che insegna a Socrate la natura dell’amore. L’immagine dell’aurora racchiude l’idea di una luce nascente, leggera che sfuma i contorni delle cose, una promessa di luce che emerge dalle tenebre.

 Nel libro sono pubblicati i testi delle seguenti lezioni:

–         La donna nella cultura medievale

–         La donna nel Rinascimento

–         La donna nel Romanticismo

–         Delirio di Antigone

–         Eloisa o l’esistenza della donna

–         Diotima di Mantinea