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Nella sera in cui veniva tradito…

Pellegrinaggio in Terra Santa dei Vescovi lombardi. Messa “in Coena Domini”, Getzemani - 28 ottobre 2025

28 Ottobre 2025

1. I segni

Le cose non sono cose. Le cose sono segni. Sono parole. Sono inviti. Sono confidenze. Sono rivelazioni. In ogni momento ci raggiunge una luce, un incanto, un interrogativo. L’insistenza di Giovanni nel richiamare l’attenzione ai gesti e a quello che Gesù usa è un invito a non ridurre i segni a cose: le vesti, l’asciugatoio, l’acqua, il catino. Si alzò, depose, si cinse, lavare, asciugare.

Siamo pellegrini in questa terra, attratti dal desiderio di ascoltare quello che hanno da dirci gli ulivi e i campi, le strade e le case, l’amicizia e l’ostilità. Non si tratta di cose o di fatti, ma di confidenze che ci introducono nel mistero di Cristo: «Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste» (Gv 1,2); «Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono» (Col 1,16s).

 

2. I segni muti

In realtà dobbiamo forse riconoscere che i segni non parlano: sono oggetti senza voce, sono gesti senza messaggio. Li ha zittiti la fretta, la superficialità, la ripetizione per inerzia, lo smarrimento del contesto di pensiero in cui vengono all’evidenza i significati.

L’affermazione della centralità della celebrazione, per la vita e per la forma della comunità, suona spesso retorica e un principio ribadito per volontarismo, piuttosto che per esperienza spirituale. La preoccupazione didattica, quella di fare dei segni e dei gesti cose da spiegare, impone l’evidenza che i segni sono muti. Potremo fare memoria di Gesù, secondo il suo comandamento, facendo “questo”, cioè rivivendo nel mistero la Pasqua di Gesù?

Siamo chiamati ad esercitare una pratica del celebrare che comunichi la vita cristiana non come una dottrina da imparare, non come una disciplina da praticare, non come un discorso da fare. Piuttosto una vita, nel suo splendore, nel suo dramma, nell’intensità della comunione con Gesù, via, verità e vita.

 

3. Il pane: «Questo è il mio corpo».
Il vino: «Questo è il calice della nuova alleanza nel mio sangue».

Il segno per dire di un corpo che si fa cibo, di un consegnarsi che non si risparmia. Il segno per dire del versare il sangue per l’alleanza e la riconciliazione. Il segno del lavare i piedi per dire l’ostinazione nel servire.

L’intenzione, la decisione, le dichiarazioni sono chiamate a farsi carne, storia, pratica di gesti e significazione delle cose di casa, del vissuto del quotidiano.

 

4. L’ostinazione a servire

Il contesto dell’Ultima Cena è segnato da inquietudine, rivalità, incomprensioni: i discepoli discutono sui privilegi, vogliono rivendicare di “essere il più grande”, Pietro si oppone al servizio di Gesù: «Tu non mi laverai i piedi in eterno». Ma Gesù si ostina nel servire, perché desidera che i suoi “abbiano parte con lui”.

Gesù contrasta l’incomprensione, contesta il fraintendimento. Non però con una discussione o con una teoria, ma compiendo il gesto del servire: «Voi però non fate così; ma chi tra voi è più grande diventi come il più giovane e chi governa come colui che serve» (Lc 23,26). Ecco: il gesto. Siamo chiamati a compiere il gesto che manifesta la nostra imitazione di Gesù, quindi ad essere ostinati nel servire. I gesti però forse ci mancano.

 

5. La nuova alleanza

La parola è diventata piuttosto “astrusa” e, nella sua accezione teologica, estranea al linguaggio corrente. Il mistero che celebriamo, però, ha a che fare con il rapporto con Dio: questo calice è la nuova alleanza nel sangue di Gesù. L’essere figli nel Figlio, l’essere popolo di Dio, trova nel segno dell’assemblea liturgica, della celebrazione dei Santi Misteri, la rivelazione sorprendente dell’alleanza con Dio. Con tremore e timore si affacciano all’abisso insondabile i figli di Dio, ma il loro spavento è trasfigurato per opera di Spirito Santo nell’abbandonarsi in lui, nella confidenza, nel “sentirsi a casa”.

L’imbarazzo delle parole che non sanno dire “Dio” da cristiani è forse sintomo di un’alleanza ancora da stabilire, di una luce ancora da invocare, perché Dio non sia ridotto all’idolo costruito dalla mente umana. Piuttosto, poter dire: “Padre!”.

Ascoltiamo Papa Francesco nella Desiderio desideravi.

 

  1. Qui sta tutta la potente bellezza della Liturgia. Se la Risurrezione fosse per noi un concetto, un’idea, un pensiero; se il Risorto fosse per noi il ricordo del ricordo di altri, per quanto autorevoli come gli Apostoli, se non venisse data anche a noi la possibilità di un incontro vero con Lui, sarebbe come dichiarare esaurita la novità del Verbo fatto carne. Invece, l’incarnazione oltre ad essere l’unico evento nuovo che la storia conosca, è anche il metodo che la Santissima Trinità ha scelto per aprire a noi la via della comunione. La fede cristiana o è incontro con Lui vivo o non è.
    La Liturgia ci garantisce la possibilità di tale incontro. A noi non serve un vago ricordo dell’ultima Cena: noi abbiamo bisogno di essere presenti a quella Cena, di poter ascoltare la sua voce, mangiare il suo Corpo e bere il suo Sangue: abbiamo bisogno di Lui. Nell’Eucaristia e in tutti i sacramenti ci viene garantita la possibilità di incontrare il Signore Gesù e di essere raggiunti dalla potenza della sua Pasqua. La potenza salvifica del sacrificio di Gesù, di ogni sua parola, di ogni suo gesto, sguardo, sentimento ci raggiunge nella celebrazione dei sacramenti. Io sono Nicodemo e la Samaritana, l’indemoniato di Cafarnao e il paralitico in casa di Pietro, la peccatrice perdonata e l’emorroissa, la figlia di Giairo e il cieco di Gerico, Zaccheo e Lazzaro, il ladrone e Pietro perdonati. Il Signore Gesù che, immolato sulla croce, più non muore e con i segni della passione vive immortale, continua a perdonarci, a guarirci, a salvarci con la potenza dei sacramenti. È il modo concreto, per via di incarnazione, con il quale ci ama; è il modo con il quale sazia quella sete di noi che ha dichiarato sulla croce (cfr. Gv 19,28).