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26 Marzo 2004

di Giorgio Mollisi

Immerso nei boschi di ulivi, di palme e di pini, adagiato ai piedi dei monti e a picco sul lago Ceresio, in un piccolo lembo di terra comasca al confine con la Svizzera. Siamo al Santuario di Nostra Signora della Caravina, in Valsolda, la terra di Fogazzaro, autore di Piccolo Mondo Antico, di Malombra, del Santo, di Leila… e di molte poesie che hanno cantato la bellezza di questi luoghi e del Santuario. In Valsolda natura e fede, misticismo e contemplazione si fondono con l’arte che trionfa sulle volte e sulle pareti delle chiese della valle. Per secoli, dal Medioevo alla fine del Settecento, da questi paesi sono partiti scalpellini e scultori, pittori e architetti, capimastri e impresari che hanno costruito in Europa chiese e palazzi reali. Primo fra tutti Pellegrino Tibaldi che dal paese di Puria in Valsolda, nella seconda metà del Cinquecento si trasferì a Milano, diventando l’architetto ufficiale di San Carlo Borromeo, e il primo costruttore delle chiese controriformistiche milanesi. Forte e particolare, quasi “personale” è il legame fra san Carlo e la Valsolda, feudo degli arcivescovi milanesi fin dall’anno Mille. Un legame tanto stretto che il santo Arcivescovo ogniqualvolta firmava un documento ufficiale, accanto alla sua carica di Archiepiscopus Mediolanensis poneva l’appellativo di Dominus Vallissoldae (signore della Valsolda). Sarà sicuramente stato questo attaccamento alla Valsolda a far decidere a san Carlo la costruzione di una chiesa alla Caravina. In questo luogo infatti nel 1562, il lunedì che segue la festa dell’Ascensione, l’11 maggio, due donne di Valsolda, Pedrina De Corti di Puria e Bartolomea Mazzucchi di Dasio videro piangere la Madonna affrescata in una piccola cappella. Quando Pedrina entrò, infatti, nella cappellina per salutare la Madonna, dopo essersi fatta il segno della croce con l’acqua santa, vide che dall’occhio destro della Vergine «erano uscite tre o quattro gotte d’acqua, et era una gotta al cantone sinistro dell’occhio, et l’altre erano poco più a basso. Et vedendo questo andata dentro la cappelletta et dissi alla donna Beltramina, O Beltramina, la Madonna piange: et così io colla mia mano tolsi le dette gotte, et le stretti alli miei occhi. Et subito sopravvenne molte persone della Valsolda le quali andate alle litanie et andavano a casa et li dicessimo come la detta figura piangeva, ma già io havevo sugato le dette lacrime, et subito corsero molti con dire il miracolo». Così Beltramina raccontò il fatto, con giuramento, davanti al delegato dell’Arcivescovo, che la interrogava sull’accaduto. Intanto alla cappelletta avvenivano guarigioni straordinarie e inspiegabili. Chi fu guarito dalle sue infermità alla gamba, come Margherita Morandi di Oria, fattasi portare alla cappelletta in barca e rimasta in preghiera tutta la notte davanti alla Vergine; chi acquistò l’udito come Giacomo Burlando di Dasio, chi abbandonò le grucce, come un Bernardo Vassalli, venuto dalla Svizzera in barca per pregare e chiedere la grazia alla Madonna, o chi, come una bambina di otto anni, fu alleviata dalla Madonna da alcune malformazioni alle gambe e ai piedi. Persino due preti, Alessandro Castelli canonico della Collegiata di San Vittore di Porlezza e don Rocco Blenio di Osteno furono guariti dalle loro malattie. Ormai era una processione continua di gente alla cappelletta della Caravina, località così detta perché posta in luogo franoso, e non c’era posto per tutti i fedeli che volevano assistere alla messa e pregare davanti al quadro della Madonna. Furono raccolte immediatamente numerose offerte e fu dato subito incarico a un architetto di Puria, un certo Mariani, detto il Sabba, che costruì la chiesa, in forme ridotte rispetto all’attuale. Ma san Carlo, desiderava in un luogo così vicino alla Svizzera protestante d’oltre Gottardo una sorta di baluardo della fede mariana. Nella sua visita del 1582, tra le varie prescrizioni e l’ordine di trasportare l’ancona della Madonna sopra l’altare maggiore, consigliò di costruire, non appena le finanze lo permettessero, un bel campanile con almeno due campane. La chiesa era però troppo piccola per fungere da santuario di tutta la valle e troppo umile per una terra che aveva espresso importanti artisti in tutta Europa. Sotto Federico Borromeo, nel 1639, si diede, pertanto, incarico a un importante architetto milanese, Carlo Buzzi, ingegnere della Fabbrica del Duomo, e l’anno successivo iniziarono i lavori che finirono nel 1643, nelle forme attuali, a eccezione della facciata che fu costruita, con un ampio pronao, in forme neoclassiche dall’architetto Carlo Vicini di Cressogno nel 1865. Il Santuario, che è a una sola navata, è una delle più belle architetture del primo barocco nella zona del Ceresio con la particolarità delle cappelle laterali alte fino alla volta, uno schema architettonico più volte imitato in questo lembo nordoccidentale di Lombardia e anche in Canton Ticino. E diffuso persino nei territori dell’impero di Polonia da architetti valsoldesi nella metà del Seicento. L’antica chiesa del Sabba fu conglobata probabilmente nel presbiterio dove un grande altare in marmo custodisce dal 1737 l’ancona con l’affresco della Pietà, opera di anonimo dei primi anni del Cinquecento. Un’immagine straziante di dolore, messo ancor più in evidenza dalla sproporzione tra i rapporti volumetrici, tra le figure della madre e del figlio, e allo stesso tempo esaltata nella regalità dalle corone in metallo applicate sul capo della Vergine e del Cristo morto, secondo un’usanza nordica.