Grazie a uno sguardo molecolare che non è mai stato così profondo, le scienze della vita (medicina e biologia) costituiscono oggi il territorio in cui è più grande il potere non solo di capire la condizione umana, ma anche di intervenirci. L’aspetto caratterizzante del nostro tempo mi sembra essere quello della digitalizzazione del vivente.
Sentiamo dire sempre con maggiore frequenza che siamo immersi in un mondo digitale. Quello su cui si riflette meno, però, è che questa digitalizzazione si sia ormai approfondita fin nella nostra biologia, a partire dal Dna, il nostro genoma, con cui ci rapportiamo sempre di più come a un testo. Sempre di più, noi capiamo la vita come testo e questo sta diventando sempre più vero per tutti i livelli di organizzazione della nostra biologia. I nostri tessuti, i nostri organi, il fatto stesso che pensiamo di poter stampare tessuti in 3D a partire dalle cellule staminali, che possiamo prendere cellule dalla nostra pelle e riprogrammarle in altri tipi di cellule e tessuti, ci pone ormai al centro di un mondo in cui parti di noi (e non solo dati, ma proprio parti viventi della nostra biologia), hanno una serie di vite parallele. Siamo dunque al centro di un mondo di frammenti digitalizzati del nostro corpo e della nostra biografia, che si vanno a integrare con il mondo di relazioni sociali anch’esse sempre più digitali in cui siamo immersi.
In questo ambito, uno degli aspetti più salienti è la possibilità – che non a caso è al centro del dibattito etico-politico in tutto il mondo – di riscrivere il Dna non solo per scopi medici in un determinato individuo, ma anche per le generazioni future. Nel momento in cui il nostro potere di scrivere sul Dna e nel Dna si fa tanto profondo, dobbiamo chiederci quindi qual è l’idea di buona vita che vogliamo scrivere e soprattutto chi la deve scrivere. In questo, il confine tra naturale e artificiale non ci aiuta tanto come punto di partenza, quanto come punto di arrivo, invitando cioè un cambio di prospettiva che ci porti a chiedere, storicamente, come una determinata società, inclusa la nostra, arrivi a definire che cosa è naturale e che cosa è artificiale. Dobbiamo cogliere quindi l’opportunità di discutere insieme l’emancipazione non solo dell’individuo, ma anche della collettività, e quale idea di vita buona vogliamo perseguire nel momento in cui questa vita buona possiamo forse – e addirittura – scriverla nel Dna».