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Appello

«Sì al reato di tortura,
per un sistema carcerario più civile»

Così il direttore di Caritas Ambrosiana, don Roberto Davanzo, a seguito della presentazione del Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti

2 Luglio 2012

«Come denunciato autorevolmente dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, le condizioni di sovraffollamento di alcuni penitenziari italiani configurano questi luoghi di reclusione come luoghi, in effetti, di tortura. Per questa ragione non è solo una battaglia per addetti ai lavori, ma un’affermazione di civiltà, chiedere che l’Italia introduca finalmente nel proprio ordinamento un reato specifico, per altro già previsto dalla nostra Costituzione. Sono diverse le proposte di legge già depositate e mi auguro che, tra le tante emergenze che il Paese deve affrontare, il mondo della politica trovi anche il tempo entro la fine della legislatura di compiere questo decisivo passo verso un sistema di reclusione più rispettoso della dignità umana». Lo ha detto il direttore di Caritas Ambrosiana, don Roberto Davanzo, commentando il Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti, presentato oggi nella sede di Caritas Ambrosiana a Milano, dal presidente della Commissione straordinaria diritti umani del Senato, Pietro Marcenaro.

Dai dati del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aggiornati al 29 febbraio 2012, si evince che i detenuti in Italia sono 66.632, mentre la capienza regolamentare dei 206 istituti di pena che è di 45.742 posti. Secondo il Rapporto «il sovraffollamento costituisce l’elemento centrale di un disagio umano, psicologico. Le conseguenze del sovraffollamento si ripercuotono sul piano sanitario, sulla socialità interna, sulle attività lavorative e via dicendo». Per questa ragione, sottolinea nel documento la Commissione del Senato: «il Comitato europeo per la prevenzione della tortura che opera presso il Consiglio d’Europa e che utilizza il parametro della Corte europea dei diritti umani», stabilisce che «ogni detenuto deve avere a disposizione quattro metri quadrati in cella multipla e sette metri quadrati in cella singola, mentre se si ha a disposizione meno di tre metri quadrati, si è in presenza di tortura».

Particolarmente gravi, secondo il direttore di Caritas Ambrosiana, sono in particolare le condizioni dei trattenuti nei centri d’identificazione ed espulsione. «In questi centri vi sono recluse anche persone che non hanno commesso nessun altro reato se non quello di essere privi del permesso di soggiorno. Un reato amministrativo che pagano con una reclusione a volte peggiore di quella dei detenuti nelle carceri, perché vissuta nella più totale inedia, in giornate vuote senza senso, senza spesso capire per quali ragioni vi sono finite e come potranno uscirne».

Dal 2004 un’equipe di operatori Caritas composta da un’assistente sociale, due mediatori linguistici e culturali, una consulente legale, entra nel Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di via Corelli allo scopo di offrire assistenza legale, socio educativa, ai trattenuti. «Lo stesso trattamento riservato sia a persone che hanno scelto l’irregolarità perché avevano esperienze di criminalità nel loro Paese, sia a persone prive di permesso di soggiorno perché vittime dei raggiri dei propri connazionali o di semplice ignoranza delle leggi alimenta solo il forte senso di ingiustizia e spinge le persone trattenute ad avviare iniziative anche illegali pur di uscire o comunque a perpetuarle, per chi è già nel circuito», hanno dichiarato gli operatori dell’equipe Caritas, che hanno inoltre voluto sottolineare gli effetti psicologici del trattenimento: «18 mesi (540 giorni) in un contesto di cui non si percepisce il senso in cui non si organizzano attività è alienante, annichilisce le persone trattenute, fa perdere la percezione della propria identità».