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Morti nel Mediterraneo

Scola: «Ognuno di noi non può non sentirsi responsabile di questa troppo lunga
e immane tragedia»

Nella chiesa di Santo Stefano l’Arcivescovo ha presieduto il momento di raccoglimento in memoria delle vittime dell'ultima strage delle migrazioni. Oltre 1500 le persone presenti, tra le quali il sindaco di Milano Giuliano Pisapia

di Annamaria BRACCINI

22 Aprile 2015

«Siamo qui riuniti per ricordare tanti uomini, donne e bambini a noi cari, anche se di molti non sappiano neanche il nome».

Dice così il cardinale Scola, con visibile commozione, aprendo la Veglia di Preghiera per i migranti che trovano la morte in mare. Per tutti coloro che intraprendono, disperati, i viaggi della “speranza” e, naturalmente, anzitutto, per le centinaia di scomparsi nell’ultimo, tragico naufragio del Canale di Sicilia.

Nella basilica di Santo Stefano – da anni, con la presenza della Cappellania per i Migranti, un punto di riferimento –, sono in tanti, oltre millecinquecento, tra cui moltissimi giovani e persone di etnia straniera.

In prima fila ci sono il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, il presidente del Consiglio Regionale, Raffaele Cattaneo e i rappresentanti delle Istituzioni e di aggregazioni eccelsi ali e Movimenti. Accanto al Cardinale, il vicario episcopale e presidente della Caritas Ambrosiana, monsignor Luca Bressan, il vescovo Paolo Martinelli e i responsabili della Pastorale dei Migranti e di quella Missionaria.

«Questa non è una manifestazione, ma un’occasione per cambiare, per lasciarci ferire dal dolore del nostro peccato. Non è questione di trovare nessi astratti tra il nostro limite e il dramma cui stiamo assistendo. Infatti ognuno di noi non può non sentirsi responsabile, a livelli che ciascuno rintraccerà nel proprio esame di coscienza, di questa troppo lunga ed immane tragedia. Tutti siamo parte dell’unica famiglia umana voluta da Dio e ogni mancanza, ogni nostro peccato incide su i membri di questa famiglia», sottolinea Scola.

Una preghiera di conversione, dunque, nella prospettiva del giudizio finale del Signore, come è delineato dal Vangelo di Matteo, al capitolo 25, che suona come un monito tra le navate di Santo Stefano. Monito che si fa triplice preghiera attraverso le parole dell’Arcivescovo che, subito, richiama e cita papa Francesco, nella richiesta pronunciata al termine del Regina Coeli, di domenica scorsa, a poche ore dalla notizia della strage: «Un accorato appello affinché la comunità internazionale agisca con decisione e prontezza, onde evitare che simili tragedie abbiano a ripetersi. Sono uomini e donne come noi, fratelli nostri che cercano una vita migliore, affamati, perseguitati, feriti, sfruttati, vittime di guerre. Cercavano la felicità».

La seconda preghiera è per la Chiesa, che è oggi «Chiesa di martiri con i nostri fratelli sgozzati sulla spiaggia della Libia; con quel ragazzino bruciato vivo dai compagni perché cristiano; con quei migranti che in alto mare buttati in mare perché cristiani; con quegli etiopi, assassinati perché cristiani», cui vengono associati, nel pensiero, «donne e uomini delle religioni, costruttori e cercatori di giustizia, che subiscono inermi violenza fino a venirne uccisi».

E, poi, ovvio, l’impegno, «per una condivisione che giunga fino a pagare di persona; nei modi che ciascuno, nelle aggregazioni o nelle parrocchie, saprà trovare; per la crescita di una coscienza civica europea e, se possibile, universale Chiediamo un’ Europa meno tecnocratica e più umana, sarebbe ora e ne abbiamo tanto, troppo bisogno L’Europa diventi finalmente una famiglia di popoli e si assuma tutta la sua responsabilità anzitutto nei confronti dei Paesi del Mediterraneo. La metropoli di Milano, le terre lombarde ed Expo trovino il modo per mettere a tema della riflessione e dell’azione queste tragedie, le loro cause e le prove che ne conseguono e realmente si diventi tutti edificatori di pace». È questo un impegno – scandisce, in conclusione l’Arcivescovo – «inderogabile, simultaneamente, di carattere personale e sociale».

Infine, dopo i canti suggestivi, la preghiera universale e il Padre Nostro recitato i un clima di composto dolore, le cifre con cui Caritas Ambrosiana cerca di soccorre concretamente e di sostenere l’emergenza, ogni emergenza – e sono tante – che si presenti, come spiega Luciano Gualzetti, vicedirettore di Caritas Ambrosiana. Vicino a lui, il direttore, don Roberto Davanzo .

«La nostra ha voluto, in questi venti anni, vuole essere ed è un’accoglienza ordinata, tempestiva, il più possibile efficace, nella scelta di creare condizioni per una vera integrazione. Dalle “piccole” accoglienze, in appartamenti, nei primi anni ’90 a oggi, con la Diocesi attiva attraverso sette progetti a Milano, Lecco e Varese, nell’accoglienza a 213 persone; dall’emergenza Nord Africa, che, iniziata nel 2011, attraverso un aiuto corale coordinato a livello di Conferenza Episcopale lombarda nel 2013 ha portato ad aiutare oltre 200 rifugiati nella Casa di Magenta, a Casa Suraya a Milano e a Lecco; dalle parrocchie con le moltissime le persone sorrette nel momento della difficoltà, all’oggi dell’integrazione, dopo la prima richiesta di un alloggio e di un lavoro.

Insomma, una luce di speranza nel mare buio della disperazione di queste ore. Una “luce” che viene dalla generosità, certo, ma anche dalla «insostituibile azione educativa e culturale nei confronti di un fenomeno da affrontare a testa alta, senza allarmismi».