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Milano

Scola ai laici del Giambellino:
«Coltivate concretezza e stile comunionale»

Nel Cineteatro della parrocchia di San Giovanni Battista alla Creta il Cardinale ha incontrato il laicato del quartiere, inaugurando un metodo che lo porterà a dialogare in ogni Decanato

di Annamaria BRACCINI

6 Maggio 2015

È una comunità affettiva e effettiva quella che il Cardinale incontra a sera – dopo aver presieduto la Celebrazione Eucaristica nella parrocchia del Santo Curato d’Ars – nel Decanato Giambellino, presso il Cineteatro che è Sala della Comunità della parrocchia di San Giovanni Battista alla Creta. 

Nel Decanato costituito da sette parrocchie, di cui cinque affidate a religiosi, non mancano le difficoltà, seppure, come dice il decano don Antonio Torresin, «la diversità di carismi è una ricchezza e insieme causa di qualche fatica».

L’Arcivescovo spiega ai molti presenti la ragione per cui, per la prima volta in maniera sistematica, ha deciso di avviare un nuovo modello di visita decanale. «Siete un poco delle “cavie” – dice, infatti, – poiché, avendo terminato la visita di tutti i Decanati, è mio desiderio ripetere l’esperienza nell’incontro con i laici e voglio utilizzare il metodo che ho già sperimentato con i sacerdoti, un metodo dialogico dopo una mia breve introduzione iniziale».

Il quadro di riferimento: i “fondamentali” di ogni Comunità cristiana

La «micro Lectio» – così la definisce lui stesso, nel riferimento costante al capitolo VIII della Lettera pastorale Alla scoperta del Dio vicino proposta alla Diocesi per il 2012-2013 -, è così un invito a leggere la Comunità di Gerusalemme nella dinamica dei quattro pilastri descritti da Atti 2 e secondo una conseguente «comunione di vita che non è una teoria astratta». 

«Tale paragrafo centrale della Lettera (le pagine scelte sono dalla 28 alla 31) intende indicare come nasce e come vive la comunità cristiana, nella consapevolezza della realtà della parrocchia in cui ci si trova. Seguo, in questo, una domanda che ho sviluppato quando ero Patriarca di Venezia, attraverso incontri assembleari con i rappresentanti di parrocchie, associazioni e movimenti».

Dunque, il cuore della discussione sono i «capisaldi della Comunità primitiva di Gerusalemme e come tradurli nelle nostre Comunità in questo tempo di travaglio», secondo quattro tratti fondamentali: l’insegnamento degli Apostoli, la comunione di vita, l’Eucaristia, la preghiera e i miracoli tra loro, e, infine, la missione come frutto spontaneo di una Comunità che vive secondo questi principi.

In questa logica, «il metodo al quale tutte le Comunità devono fare riferimento è dato da un punto di partenza comune, una sostanza che non cambia – appunto questi fondamentali -, su cui costruire cammini attenti alle singole realtà», attraverso la valorizzazione di un contesto di «pluriformità che si dà nell’unità». E tutto con un’educazione al “pensiero” di Cristo, o meglio alla sua mentalità, come la chiama il Cardinale, citando la famosa, «potentissima», espressione di San Massimo Confessore: «pensare Lui attraverso tutte le cose». «È questo che ci fa fratelli in Cristo stesso, per cui non si può che dare una stima previa a ogni altra persona. Ma ciò ci fa capire anche il grande segreto della vita che è un dono per cui dobbiamo donarla a nostra volta».

Se il «Sacramento illuminato dalla Parola di Dio è un’offerta permanente di Gesù alla mia, alla nostra libertà, la missione è, quindi, un comunicare gioioso e pieno di gratitudine tutto quello che abbiamo ricevuto gratuitamente». Da qui un concetto di missione sul quale l’Arcivescovo – e non da oggi – insiste particolarmente poiché «essa si configura come un “fiorire” gratuito di gente segnata dal dono di Cristo con una fisionomia che ogni Comunità cristiana non può non assumere».

Ma le nostre parrocchie, realtà, articolazioni, vivono così? Si apre qui il confronto a più voci, una decina di persone diverse, laici per la maggioranza, un sacerdote, suore. 

Il dibattito con il Cardinale

Mario si interroga sulla Comunità educante e su come aiutarsi in questo compito così urgente; Guido domanda come vivere, in questo orizzonte, il Consiglio pastorale, specie nel momento dell’avvio delle nuove rappresentanze e mandati; Giuditta chiede un chiarimento sulla gratuità che, troppo di frequente, per chi si impegna a livello ecclesiale, cade in un “doverismo”.

«Questo incontro è come un aperitivo, deve far venire voglia di mangiare», scherza Scola, auspicando che la discussione sia preliminare a un approfondimento con i sacerdoti a livello di Decanato e indicando, dunque, solo linee da percorrere.

La prima è perseguire l’educazione come formazione all’unità dell’Io. «Abbiamo coniato il termine Comunità educante partendo dall’evidenza della difficoltà più grave nell’educazione oggi. Il nostro mondo è frammentato, non solo a livello sociale, ma anche individuale. Dunque, occorre ritrovare l’unità della persona. Se non è più pensabile ricostruire una sorta di microcosmo in parrocchia, si tratta di coinvolgere tutti gli attori educativi che hanno a che fare con la crescita dei ragazzi. Lo scopo è avere una preoccupazione comune in modo di offrire un criterio esistenziale evidente». Come a dire: i preti, le religiose, i catechisti, gli allenatori, i genitori, i nonni, devono tutti, nei rispettivi campi, fare la loro parte.

«Il cristianesimo è realismo – scandisce il Cardinale -. Dobbiamo vedere insieme, lentamente, come si può costruire uno stile di vita perché la comunione, appunto, non è un’astrazione e la vita la giochiamo ogni giorno, sperimentandola. Questo deve essere anche lo stile del Consiglio pastorale».

E ancora, «si sfugge al doverismo, se si comprende il senso della vita come vocazione e chiamata, da sperimentare nella ripetizione di gesti di gratuità. In questo senso, la parola servizio prende la sua giusta dimensione e diventa un lasciarsi prendere a servizio, plasmando, nel tempo, la persona al senso del dono. Il doverismo si batte se tutta la Comunità vive questa gratuità regolarmente».

Patrizia parla di carità. Gianluca dice: «Viviamo in una periferia difficile, cosa vorrebbe che facessimo per la Chiesa e per Milano?». Don Giacomo della Pastorale giovanile del Decanato, «per quel poco che c’è», si interroga su come si possa favorire l’incontro in Decanato. Suor Carla, impegnata nel Centro di Ascolto di una delle parrocchie, spiega che manca il coordinamento dei servizi caritativi.

La risposta complessiva dell’Arcivescovo richiama l’esperienza comune di ciascuno, su cui basare tutta la azione pastorale: «Dobbiamo superare una concezione di Chiesa che si identifica tracciando un confine tra quanti la frequentano più o meno facilmente e i lontani. I “lontani” non esistono; invece, occorre guardare alla comunità cristiana chiedendoci se esista qualcuno che non abbia ogni giorno a che fare con le esperienze umane. Così si può, sempre, intavolare un rapporto nel comune dono della fede ricevuto da Cristo che si documenta in tutte le pagine del Vangelo. La missione, come dice il Papa, non è un organizzazione, non è un Ong, ma è un’esplosione di energia. Una mobilitazione a vivere tutti i giorni. Le nostre realtà hanno bisogno di semplificazione, di tornare ai fondamentali e di non dire più: “Abbiamo sempre fatto così”. In questo senso, vedo l’importanza delle Comunità pastorali: non si tratta solo di una necessità per la diminuzione, pur innegabile, del numero dei preti, ma di mettere insieme le forze per lavorare più concretamente. Chiediamo alla Madonna di vivere la Comunità cristiana ogni giorno con la gioia di essere stati chiamati e di avere detto il nostro “sì” gioioso».

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