Insieme ai suoi fratelli ha mantenuto fede alle promesse fatte ai dipendenti e, nonostante la crisi abbia messo in ginocchio vendite e fatturato, è riuscito a mantenere al loro posto tutte le maestranze con il loro stipendio, quattordicesima compresa. Stefano Rivolta, 47 anni, sposato con tre figli, lavora nell’azienda di famiglia a Desio, dove si occupa di semilavorati in legno per strumenti musicali. In totale dieci persone, di cui sette dipendenti. Un’azienda che ha contatti in tutto il mondo da quattro generazioni.
«Per noi la crisi è arrivata nel 2008 – racconta Stefano – con un crollo di fatturato del 40% e il crollo delle vendite sia all’interno del Paese sia nei consumi esterni. Il distributore in America ha chiuso, la Cina ha ordinato meno commesse. Il lavoro è ripreso nel 2010, ma nel 2012 c’è stato un nuovo crollo. Abbiamo dovuto reinventarci, usare nuovi canali di distribuzione, cambiare la modalità di vendita e di presentazione dell’azienda stessa. Un po’ per nostro orgoglio personale e perché la cassa integrazione avrebbe avuto ripercussioni sulla vita dei dipendenti, abbiamo tenuto duro. E poi lavoriamo accanto a persone travolte esse stesse dalla crisi».
Certo per un credente la domanda è d’obbligo: da dove nasce la crisi? «Uno non può non chiederselo. Non hai sbagliato prodotto, non hai sbagliato sistema produttivo, quindi? Non è giusta la distribuzione della ricchezza, che penalizza i tanti, i dipendenti e le piccole e medie imprese. È giusto però riconoscere la fatica con i fornitori, perché nella crisi la solitudine è la cosa peggiore che ci possa essere. E condividere con le persone le fatiche è un passo importante. Perché bisogna capire il lavoro e la realizzazione che questo ti dà, ma non c’è solo il lavoro per realizzarsi, il fallimento di un’impresa non è il fallimento di una vita. Questa crisi supera le nostre teste, le nostre capacità. Il capire da dove viene la crisi, ti fa capire che non hai sbagliato tu. In questa crisi hanno fatto molto la differenza le qualità umane». Stefano però un appunto lo vuole fare: «Non ci sono spazi e luoghi come credente per confrontarsi, per discutere il significato e il senso della crisi, evitando che il lavoro e il tempo del lavoro si mangino tutti gli altri aspetti della vita».