Il libro è una drammatica introspezione nella scuola italiana. L’autrice suddivide il testo in tre parti.
La prima parte è descrittiva, sono le cose che ho tutti i giorni sotto gli occhi: i nostri giovani a scuola, per strada, al bar, al ristorante, nelle piazze alle tre di notte, non studianti, assenti, chattanti. Le cose come stanno, insomma, sotto gli occhi di tutti, ma che molti diranno che non stanno affatto, non sono, me le sono inventate: perché non ho detto che vediamo le stesse cose, un albero io lo vedo verde e tu magari giallo, la realtà in sé non esiste, il mondo è interpretazione.
La seconda parte è una specie di ricostruzione storica di come è andata, a partire dagli anni sessanta fino ad oggi. Un bel viaggetto da don Milani alla Gelmini. E questa sì, come negarlo? È una mia personale ricostruzione: nel senso che molti di sicuro, ricostruirebbero in un altro modo.
La terza parte è quella a cui io tengo di più. Forse ho scritto il libro per poter arrivare lì, a dire quel che vorrei (…). La mia personale proposta (…) e quale scuola mi inventerei.
Parte prima: i non studianti
L’incipit per poter entrare nel mondo giovanile studentesco è dato da due osservazioni che la professoressa si trova a fare essendo la stessa coinvolta professionalmente in un liceo di Torino.
Il primo è caratterizzato da un dettagliato ritratto degli studenti la mattina, prima del suono della campanella che dà l’avvio alle lezioni:
Hanno ciuffi scomposti e occhi addormentati. Giubbotti striminziti e jeans abbassati e lunghissimi, con la stoffa che si accascia esorbitante sul collo delle scarpe. Le mani in tasca, lo zaino in spalla. I cinturoni bassi, le scarpe da ginnastica grosse, gonfie, colorate. A volte dorate. Hanno zaini obesi, spropositati, appesi a una spalla, sbattuti a terra, cariche di scritte, adesivi, mostri, piccoli peluche “peluscini”. Soprattutto le ragazze, appendono di tutto allo zaino: l’universo degli animaletti del creato ridotti in miniatura e con l’anello portachiavi: zebre, coccodrillini, dromedari, camaleonti, elefantini, asinelli cammelli, coccinelle, gazzelle… O antilopi?
Il secondo è il test di ingresso al liceo scientifico (previsto dalla legge), stesso giorno alla stessa ora le stesse domande. Risultato neanche una sufficienza su venticinque allievi, mentre su tutta la scuola venti studenti rispondono in modo adeguato su 250. Morale gli studenti dopo otto anni di scuola dell’obbligo (ed aggiungiamoci la scuola materna) arrivano completamente impreparati all’appuntamento liceale. In matematica non sanno calcolare nemmeno il minimo comune multiplo e il massimo comun divisore; in italiano sono al palo: grafia, sintassi, analisi logica e grammaticale sono tabù. Errori nell’uso degli accenti e della “h” sono normali.
Ne fuoriesce un’immagine quanto mai svogliata di questi alunni, si disegna una massa senza personalità, dove la moda del momento è ciò che li accomuna. La vergogna di farsi trovare impreparati all’interrogazione, sembra proprio non abiti più in queste aule del sapere. La maggior parte non studia e non se ne preoccupa più di tanto, anzi fa parte del modo di essere. L’alunno si presenta al cospetto dell’insegnante seduto, con un ginocchio appoggiato al bordo della cattedra e con il libro in mano eppure non sa dir nulla se non al massimo leggere qualche pagina e prendere il solito quattro.
Cosa fanno questi ragazzi dopo la scuola? Tutto tranne che studiare. Mangiano, entrano in internet, chattano, fanno sport, escono con gli amici, a ripetizione (qui i professori sono molto richiesti per risolvere un problema imminente di natura scolastica). Il sabato tornano tardi e magari sono gli stessi genitori che li vanno a prendere alle tre – quattro di notte in discoteca.
Paola Mastrocola non si risparmiae di fronte all’evidenza non gli resta che affermare: Personalmente direi che è certo: i nostri ragazzi non hanno più la capacità di capire quello che leggono.
Continua la sua diagnosi descrivendo il quotidiano magari con un poco di ironia, senza nascondere lo sgomento e la delusione per tanta nonchalance.
Ecco perché i ragazzi oggi vivono di chat e di vestiti e di birre o, peggio ancora, di pasticche: perché noi non abbiamo insegnato loro per davvero, e sul serio a leggere (capire) il senso delle parole di un libro. Abbiamo avuto paura della difficoltà e della fatica. O semplicemente eravamo occupati in altro e non abbiamo speso nessun tempo ad educare i figli, per esempio all’amore per le parole e per le idee che attraverso le parole, in opere bellissime dell’ingegno umano, si sono espresse nei secoli. Noi soprattutto, noi che apparteniamo alla generazione nata negli anni Cinquanta, noi generazione del Sessantotto e dintorni siamo i massimi responsabili (…). Così adesso, di fronte a libri che li mettono davanti a ostacoli insormontabili, i nostri ragazzi scappano.
Parte seconda: breve storia del non studio
La disintegrazione culturale che ha investito la società e la scuola è iniziata, secondo l’autrice, con la trasmissione radiofonica in onda dal 1969 su Radio 1: Chiamate Roma 3131. Due erano le novità introdotte: il conduttore parlava troppo (prima presentava soltanto dei brani) ed il pubblico poteva intervenire da casa. Tutti dicevano la loro su tutto e su tutti, era il trionfo del “chiunquismo” e dell’incompetenza. Tutto divenne relativo! Non a caso oggi lo studente mentre legge Pirandello, Svevo, Dante, Manzoni ora può permettersi di dire la sua. In questo modo nessun autore è più autorevole e ciò che vale non è la conoscenza ma il giudizio dello studente.
L’autrice oltre a prendere atto dell’influenza negativa di certe trasmissioni compie un’analisi critica del pensiero di don Lorenzo Milani e Gianni Rodari, le cui “filosofie” hanno impregnato e guidato la scuola italiana dagli anni settanta in poi.
Nel 1967 fu pubblicato “Lettera a una professoressa”. Era la lettera di un ragazzino della scuola di Barbiana indirizzata alla sua ex professoressa delle medie, per chiederle di smetterla di insegnare cose lontane da lui e dai suoi compagni, figli di contadini e montanari. La pregava di smetterla di studiare l’Eneide o l’Iliade, le poesie del Foscolo, i castelli della Loira e i problemi di geometria perché cose inventate dai ricchi per umiliare i poveri, per farli sentire inadeguati.
Bisognerebbe intendersi su cosa sia la lingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a ricrearle all’infinito. I ricchi la cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo.
Il libro si chiude con un sogno, il sogno di insegnanti nuovi e democratici che finalmente dicono ai loro allievi:
A pedagogia vi chiederemo solo di Gianni. A italiano di raccontarci come avete fatto a scrivere questa bella lettera. A latino qualche parola antica che dice il vostro nonno. A geografia la vita dei contadini inglesi. A storia i motivi per cui i montanari scendono al piano. A scienze ci parlerete di sarmenti e ci direte il nome dell’albero che fa le ciliegie.
Il libro di don Milani divenne subito un mito. Si sposava con la protesta studentesca e l’ideologia comunista e cattolica di tutti gli insegnanti che volevano cambiare la scuola ritenuta classista.
Così pian piano la scuola si è liberata del fardello delle materie ritenute meno utili come il latino o la letteratura.
Nel 1973 Gianni Rodari dava alle stampe “La grammatica della fantasia”. Con questo libro ci indicava di come era possibile fare una scuola della fantasia dove attraverso le parole e il gioco i bambini arrivassero a scrivere filastrocche, poesie e racconti. Proponeva una scuola divertente e allegra dove si poteva ridere e giocare.
Nelle nostre scuole – scriveva Rodari– generalmente parlando si ride troppo poco. L’idea che l’educazione della mente sia una cosa tetra è tra le più difficili da combattere.
La conseguenza, secondo l’autrice, è che si è ritenuto noiose materie come la grammatica, la storia, la letteratura e si è deciso di non insegnarle più in qualche modo, senza convinzione oppure di insegnarle in modo allegro come se fosse un gioco. La scuola doveva diventare un gioco.
Nel 1975 uscivano le “Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica” redatto dall’associazione Giscel, davano una lettura politica sulle materie di studio. Tesi che divennero piano di governo con Luigi Berlinguer ministro dell’Istruzione dal 1996-2001. L’idea centrale di questo periodo fu “il diritto al successo formativo” in sostanza quello di conseguire diploma e laurea “a tutti i costi”.
A questo punto l’autrice si lascia andare ad un’amara riflessione:
Ai ragazzi diamo una scuola senza futuro, perché glielo abbiamo tolto.
Diamo una scuola ricca di attività opzionali e in cui “si stia bene” perché i genitori non hanno più tempo, energia o voglia di seguire i figli, e allora dobbiamo offrire un parcheggio gradevole nel quale lasciarli da mattina a sera.
E con l’espressione “abbiamo tolto il futuro” intendo dire che, in una società stagnante e “priva di padre” – passatemi il termine – come la nostra, noi non abbiamo bisogno di giovani che escano agguerriti da scuola, ben decisi e orientati verso una scelta di vita: no, noi abbiamo bisogno di formare degli individui demotivati, privi di competenze, flessibili, possibilmente fino a mettersi a novanta: da sbattere da un call center all’altro, da un catering a un servizio hostess, da un help desk a un volantinaggio.
Parte terza: lo studio come scelta
Infine la parte conclusiva cerca di comprendere la scuola di oggi. L’autrice analizza le tre parole che non piacciono più: studio, cultura e letteratura, ma soprattutto prende vigore il grido disperato “Togliamo il disturbo” dove si invoca la libertà sia di studiare, sia di non studiare. L’istruzione non segue affatto le inclinazioni vere del discente. Anzi si cerca sempre di deviarlo verso una condizione di laureato destinato naturalmente ad essere disoccupato ben sapendo che in Italia la richiesta di tecnici e operai qualificati è alta.
È proprio questa ricerca dell’inclinazione dei giovani che spinge la Mastrocola a proporre le linee generali di un nuovo modello di scuola costituito da tre indirizzi: uno per il lavoro, l’altro per la comunicazione ed infine per lo studio.
L’indirizzo di avviamento al lavoro o work- school è per i ragazzi che nella vita vogliono svolgere un lavoro manuale: diventare artigiani, geometri, meccanici, informatici per costruire, riparare, lavorare il ferro, il vetro, il legno, le vernici, la calce (…). Oltre ad apprendere competenze professionali sarebbe bene che si insegnassero anche materie umanistiche ed artistiche per completarne la formazione.
La scuola della comunicazione o communication school, voluta dall’Europa, dai Ministeri ed è quella che pian piano stiamo formando. Gli obiettivi principali sono la socializzazione, il lavoro di gruppo, la cooperazione, la cittadinanza, la Costituzione, il linguaggio multimediale e la comunicazione attraverso la rete.
Nel percorso dedicato allo studio o knowledge-school invece si educano i ragazzi alla filosofia, alla letteratura, al latino, al greco, alla matematica, alla fisica e alla speculazione teoretica.
Termino la recensione riportando le parole messe in bella evidenza nella quarta di copertina:
Ditemi se le devo ancora insegnare queste cose o no. Forse, se i ragazzi non sanno più l’italiano, vuol dire che la scuola non ha più ritenuto che fosse il caso di insegnare l’italiano. Forse tutti in Italia (o meglio, in Europa) hanno deciso questo: che non è più utile insegnare la propria lingua, e si sono dimenticati di dirlo anche a me, e allora io sono l’ultima a fare una cosa che non interessa più nessuno, e quindi è bene che smetta. Questo libro è una battaglia, perché la cultura non abbandoni la nostra vita e prima di ogni altro luogo la nostra scuola, rendendo il futuro di tutti noi un deserto. È anche un atto di accusa alla mia generazione, che ha compiuto alcune scelte disastrose e non manifesta oggi il minimo pentimento. Infine, è la mia personale preghiera ai giovani, perché scelgano loro, in prima persona, la vita che vorranno, ignorando ogni pressione, sociale e soprattutto familiare. E perché, in un mondo che li vezzeggia, li compatisce, e ne alimenta ogni giorno il vittimismo, essi con un gesto coraggioso e rivoluzionario si riprendano la libertà di scegliere se studiare o no, sovvertendo tutti gli insopportabili luoghi comuni che da almeno quarant’anni ci governano e ci opprimono.