L’associazione “Qualcosa per il mondo”, in occasione del decimo anniversario della morte di don Mario Mascheroni, parroco di San Giovanni Battista di Bergoro frazione di Fognano Olona tra il 1977 e il 2004, lo scorso giugno 2014 ha organizzato un evento in occasione della benedizione del busto in marmo di don Mario Mascheroni al parco a lui dedicato di via Cadorna. Dopo l’inaugurazione è seguita la presentazione del libro Don Mario Mascheroni – Un uomo un prete l’amico di tutti, con l’intervento di monsignor Adriano Caprioli (già vescovo di Reggio Emilia e Guastalla) e di monsignor Claudio Livetti, autore dell’opera e la partecipazione di alcuni sacerdoti che hanno vissuto parte del loro ministero al fianco di don Mario. Il sacerdote era così amato che gli è stato intestato perfino il centro sportivo e mi diceva un suo nipote che tra i ragazzi di oratorio da lui cresciuti nell’arco temporale di un ventennio, ben cinque sono diventati sindaci dei paesi della valle dell’Olona. Non è un caso, visto che don Mario li aveva già abituati a prendere le responsabilità anche attraverso il gioco “della “repubblica dei ragazzi organizzata all’oratorio di Solbiate con il chierico Adriano Caprioli poi vescovo con tanto di presidente e ministri in carica”.
Don Mario Mascheroni nasce a Meda nell’aprile del 1928 in una famiglia operaia. Da loro imparerà la laboriosità, l’affetto e la riconoscenza. I genitori lo iscrivono alla scuola professionale e con diploma in mano a 14 anni poteva entrare in fabbrica. Nel 1942, invece entra in seminario a San Pietro e nel 1954 è ordinato sacerdote. Fino al 1977 è stato coadiutore dell’oratorio di Fagnano Olona per poi divenire parroco nella frazione di Bergoro fino alla sua morte nel 2004.
Il vescovo Adriano Caprioli già dalle prime battute della sua bellissima prefazione spiega che cos’è la parrocchia ricollocando nel mondo reale e contemporaneo. «Calata nel quotidiano, collocata in un territorio con tutte le sue configurazioni non puramente geografiche, ma sociali, economiche, spirituali e religiose, la parabola di una parrocchia è profondamente intrecciata con la storia stessa del paese, delle amministrazioni locali, della società civile, del mondo. Come ben osserva il nostro card. Scola: “Il mondo che Gesù chiama il campo chiede di essere pensato come il luogo in cui ogni uomo e ogni donna possono rispondere al loro desiderio di felicità” (Il campo è il mondo, Lettera pastorale 2014). Chiesa e mondo, una storia sola dunque, e unica la società di cui il messaggio cristiano è il fermento».
Poi, il presule traccia un breve profilo della figura del sacerdote don Mario.
«Una cosa era il segreto della sua vocazione: la gioia di essere prete. L’unico segreto per attrarre vocazioni è irradiare gioia di una vita anche umanamente bella, che ama la musica, il pianoforte, la corale, il teatro, la bellezza e che non conosce la noia. Possiamo fare mille inchieste, cento convegni vocazionali, ma se una comunità parrocchiale, una persona consacrata, un prete non ha la gioia, quelle iniziative non servono»
E continua mons. Caprioli:
«La casa qui a Bergoro era aperta a tutti: giovani mai visti, disoccupati, incompresi, scoraggiati; giovani che convivono, sposati civilmente che chiedono il Battesimo per il proprio bambino; bambini nella sala seduti per terra a vedere un film su Gesù e il Vangelo; le ragazze che imparano a suonare…. non tutti insieme, ovviamente!».
Il libro è il frutto di un meticoloso lavoro di lettura del Cronicon parrocchiale di Bergoro dove don Mario ne è stato parroco per 27 anni. L’amico mons. Claudio Livetti ha suddiviso gli scritti del sacerdote in aree tematiche che vanno dalle notizie sulla famiglia d’origine, agli anni del seminario, all’impegno educativo verso i giovani, l’interesse del sociale e del creato, l’invecchiamento e le malattie, le omelie durante i funerali e le omelie nell’anno liturgico. Questa ultima parte poi, essendo non scritta di botto ma ragionata, esprime in modo razionale il suo grande attaccamento alla Chiesa.
Propongo alcuni brani che ritengo significativi che ripercorrono tutta la vita di questo umile e “poderoso” prete ambrosiano.
«Mio padre era un uomo buono, umile e religioso, chiacchierino. Mi raccontava le storie della guerra che aveva combattuto sul Carso rischiando la vita. Mia madre attiva, laboriosa, interessata. Tutte le sere in cortile diceva il rosario in un latino misto a dialetto, io mi addormentavo tra le sue braccia, non capivo niente. Le mie sorelle mi prendevano per mano aiutandomi a camminare.
Il mio rione era in periferia. Un rione rosso, marxista, areligioso. Gli uomini quasi tutti comunisti. La domenica quando alzavano troppo il gomito cantavano: “Avanti popolo alla riscossa bandiera rossa trionferà”. Il clima politico era nero, dominava la dittatura fascista: figli della lupa, avanguardiste, balilla, camicie nere. A scuola si parlava del dio Benito, si cantavano canzoni nazionaliste “Adua sei liberata, sei ritornata a noi. Adua sei conquistata, ritornano gli eroi”. Frequentai le elementari imparando i bollettini di guerra. C’era una cultura che non digerivo, la mia coscienza umana e cristiana faceva a pugni con il fascismo. Imparai il catechismo sulle ginocchia di mia madre. “La tua Prima comunione è il giorno più bello della tua vita” mi diceva con voce stanca per il continuo lavoro.
Un giorno mi capitò di conoscere un prete giovane, dinamico, concreto: don Ernesto Cattorini che ha lasciato nella storia oratoriana un’impronta incancellabile di bene. Mi faceva catechismo, giocava a calcio, cantava con le operette. Diceva: “Andiamo in salone a fare le prove, giochiamo dopo”. Don Ernesto un coraggioso prete che ha sfidato la morte per la libertà. Lunghe e belle passeggiate: Cantù, Inverigo, Lissone, Buco del Piombo, sempre col cavallo di San Francesco. Portava sulle spalle i bambini piccoli e stanchi. Giocava, cantava, viveva insieme ai ragazzi. Era uno di noi, era l’ombra affettuosa del Signore. La sua chiesa la domenica si stipava di giovani, ragazzi, perché il mio prete partiva dal teatro per arrivare a Gesù Cristo. Occorrevano tre turni per la preghiera e la catechesi. Omelia: “Ragazzi, imparate la fede di don Bosco”. Poi mi iscrissi all’Avviamento professionale, la scuola che preparava al lavoro. Il professore in camicia nera, fascista sfegatato, mi prendeva a bacchettate perché non frequentavo il raduno dei Balilla. La mia casa era l’oratorio. Un bel giorno il Don, dopo la partita, mi disse una parola: “Ti piacerebbe diventare sacerdote?”. Ne parlai con mio padre che non ci vide la stoffa del prete. Unico figlio maschio con tre sorelle si spegneva la dinastia. Mia madre commentò con lacrime silenziose. Una sera la famiglia si riunì sotto la pianta di ciliegio e mio padre mise al sole i suoi sentimenti: “Se il ragazzo ha voglia di andare in seminario, benissimo, studia e impara. Tornerà con cose buone nel cuore”. Andai in seminario con il sacchetto di maglie, camicie e roba da letto. Quelli che stanno in alto mi diedero un numero; 1111. Il cortile del seminario era arioso, le finestre cosparse di fiori e i tigli profumati proiettavano sulla nuda terra ombre alte e allegre, in mezzo una bella fontana. Nessun campo sportivo. La giornata del seminario la divideva la campana: alle 7 sveglia, poi in chiesa, refettorio, giochi fissi, studio, scuola. In silenzio sempre, incolonnati come dei condannati. Il De profundis salendo e discendendo le scale. Nell’intervallo delle lezioni non si poteva dialogare sopra il rigo perché la scuola non era la torre di Babele. Gli insegnanti erano preti quadrati a livello di punto e virgola. Ho incontrato il mio caro Manzoni, Carducci, Pascoli, Petrarca, godevo un mondo leggendo le loro poesie. Il mio rettore era un monsignore tutta fede e cultura, piccolo di statura ma grande nel far paura. Ogni tre mesi leggeva i voti, a voce alta, davanti a tutti. Italiano 7, Matematica 6, Storia 9, Geografia 9, Latino 7, Francese 5, Disegno 8, Canto 9, Condotta 9-. Quel piccolo rettore dagli occhi di lince mi faceva le prediche lunghe, noiose, scoraggianti. Ed io continuavo a parlare in dialetto, a giocare al pallone senza tonaca. Nel primo anno del seminario ero come un pesce fuor d’acqua». (24 agosto 1990)
«Il 27 giugno 1954 è stato il giorno più bello della mia vita: Dio mi ha toccato e mi ha consacrato con il sacerdozio. Ricordo con piacere gli anni della preparazione. Sono entrato in seminario a 14 anni. Frequentavo la terza commerciale quando un giorno un professore mi picchiò fortemente perché non studiavo i bollettini di guerra. Da quel momento rifiutai la scuola statale, entrai in seminario in prima media, iniziavo così la mia preparazione al sacerdozio. Era l’inizio di ottobre del 1942, c’era la guerra, erano tempi di paura, di fame e di freddo. Ma in seminario mi trovavo bene, anche se regnava un rigidismo che mi dava fastidio, la strada era in salita, si camminava con fatica. Ma era molto bello perché in seminario non insegnavano i bollettini di guerra ma si studiava veramente con serietà circondati da ottimi professori che ti facevano amare lo studio. Poi c’era la scuola di musica che ti elevava e la preghiera che ti dava la forza di vincere nei momenti difficili». (10 maggio 2004)
«Non sono d’accordo con quelli che dicono che il seminario si estingue. Io sono sicuro che lo Spirito Santo non lascerà sola la sua Chiesa. Un giorno ci manderà sacerdoti africani, asiatici, indiani che diventeranno missionari in occidente».
«Incontro con i suoi compagni di messa. 35 compagni tra cui don Giovanni Legramandi centrocampista della nazionale di teologia nel 1952, faceva passaggi alla perfezione e mi lanciava a rete umiliando i professori e le altre squadre. Mi chiamavano veleno».
«Sabato. Oggi compio 75 anni, da 41 anni sono sacerdote, tutta la mia vita fu una benedizione di Dio. A 14 anni, dopo la terza commerciale, entrai in seminario a San Pietro per le medie, poi il liceo a Venegono e al Collegio Ballerini come assistente dei ragazzi. In teologia mi mandarono a San Pietro come Prefetto. A 26 anni la prima messa, poi coadiutore a Solbiate dove già facevo il catechista prima della ordinazione. Qui con don Ugo Mocchetti ho passato 14 anni, 9 anni con don Angelo Porro e dopo 23 anni come coadiutore il cardinal Colombo mi ha consegnato la parrocchia di Bergoro. Qui ho passato 26 anni con tanta brava gente, ora il mio mandato è finito, seguo il codice e presento le dimissioni». (12 aprile 2003)
«È urgente ricostruire a misura della strada, del quartiere o del grande agglomerato il tessuto sociale in cui l’uomo possa soddisfare le esigenze della sua personalità. Centri di interesse, di cultura devono essere creati o sviluppati a livello di comunità e di parrocchie in quelle diverse forme di associazioni: i Circoli ricreativi, luoghi di riunioni, incontri spirituali e comunitari in cui ciascuno, sottraendosi all’isolamento, ricercherà dei rapporti fraterni». (1971, enciclica di Paolo VI “Octogemia Adveniens”
«I fatti di Medjugorje mi fanno pensare. Non condivido l’atteggiamento di alcuni teologi e filosofi: sono diffidenti, ripudiano a priori la possibilità del soprannaturale che può manifestarsi anche per le apparizioni. A Medjugorje c’è gente che prega, si confessa e si converte. Ambrogio, uomo buono, era indifferente nella religione, dopo aver visto Medjugorje è diventato un cristiano fervente e praticante». (1989) L’anno dopo si reca anche don Mario e ne rimane affascinato.
«La politica è libertà. L’appartenenza a un partito non deve diventare qualche cosa che paralizza. Il bene della gente merita il primato su ogni forma ideologica e politica. È quanto lo ricorda un grande prete della Chiesa: primo Mazzolari dice. “Chi ama la propria idea più dell’uomo è fuori dall’uomo”. Il vangelo ci insegna ad amare gli uomini più delle idee e le idee in questo servono per fare del bene agli uomini. La politica non deve farsi irretire dagli interessi di partito o personali, ma restare libera per aiutare sempre l’uomo».
«Non sono più giovane. Inizio il 7 volume del Cronicon con incertezza. La vista si offusca, il respiro mi è quasi pesante, , il cuore è quasi stanco e la mano casca, non è più agile. Vorrei ritornare bambino per rivivere la mia attività sportiva: il calcio, il nuoto, la bicicletta. Da anni ho attaccato al chiodo gli sci che mi regalavano un’aria sana e la bellezza della natura rendendo il mio corpo più svelto e spedito sulle strade della vita. Ho lasciato dietro le spalle tante cose vecchie, ho perso una gioventù attiva, gioiosa, dinamica. Tutto questo è legge di una vita che passa per tutti e ci avvicina all’eternità. In quel momento il corpo sarà bello, non avrà più fastidi, non si ammalerà avendo in eterno la visione beatifica di Dio». (25 luglio 1990)
«Quando ero giovane prete vivevo in mezzo ai ragazzi, giocavo con loro, dialogavo. Il mio parroco diceva che io ero un prete da cortile perché ero sempre in mezzo ai ragazzi e dopo il gioco tutti venivano in chiesa a pregare, io raccontavo loro la storia di Cristo». (28 aprile 2003)
«Eppure Gesù della sua morte e della nostra morte ha dato una mirabile spiegazione ben chiara e precisa. Mentre andava a Gerusalemme a morire sulla croce ha detto un’affermazione vera che abbiamo ascoltato dal vangelo: “Se il grano di frumento cadendo in terra non muore, non dà frutto e resta solo, ma se muore dà molto frutto”. Buttate un granello sulla strada asfaltata, sul liscio pavimento non produce niente. Gettatelo in una buca. Osservate con attenzione quella morte: poco dopo da quella morte nasce un filo, poi un altro, poi tanti altri. Sono le piccole pianticelle di frumento che nascono da quel granello e cresceranno in tante spighe. Chi sa dire quanti granelli sono maturati da quel granello morto? Da questa morte è nata una nuova vita più perfetta, più bella. Così è anche per l’uomo che muore: Si semina un corpo materiale, risorgerà un corpo spirituale. Un corpo più perfetto, più bello, immortale». (20 febbraio 1995)
Dalle omelia dell’anno liturgico
«Prima domenica di Avvento. Oggi occorrono persone che facciano qualcosa, che lo facciano fuori chiesa, fuori di casa loro, lo facciano nelle strade, nelle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri, perché è lì in quegli ambienti che bisogna spezzare la spirale della violenza; è lì che si incontrano gli uomini che hanno bisogno di essere liberati dalla seduzione dell’egoismo. Hanno bisogno di vedere delle testimonianze di modelli di vita diversi da quelli che suggerisce la società consumistica in cui viviamo». (Novembre 1996)
«Natale. Come può turbarci un bambino che non ha niente? Né casa, né culla, un bambino costretto a nascere in una grotta? É da secoli che gli uomini hanno tentato di cancellare questo turbamento del Natale. Nonostante tutto siamo qui a Natale anche quest’anno e non siamo turbati. Noi siamo sereni, siamo contenti. Perché abbiamo la fede in un bambino-Dio che è qui presente. E sentiamo che non ci umiliamo, che non siamo per niente oppressi da questa parola, da questa presenza, anche se non siamo capaci di farla diventare fede viva, conversione esatta e vita coerente. (…). Siamo di Cristo: io non so spiegare come gli apparteniamo, ma è un fatto indubitabile. Noi non possiamo distaccarci da lui. Sono secoli che l’umanità fa questo sforzo. Ci siamo distaccati da tante religioni; ci siamo lasciati dietro le spalle le religioni dei Greci e dei Romani, vi sono tante cose che sono cadute e sono cadute senza fatica e non c’è stato neanche il bisogno di aggredirle». (25 dicembre 1996)
«Venerdì di quaresima con i bambini. Noi non vogliamo stressare i vostri bambini, sono già stressati dalla televisione. Desideriamo soltanto educarli impegnandoli nella vita religiosa. Insegnare loro una religione vera, non fanatica, non formale, non costretta; una religione basata sull’amore a Dio e al prossimo». (1 marzo 1996)
«Sono tre gli elementi che costituiscono l’atto di fede: l’intelligenza, la volontà e la grazia. Dio non è una fantasia, ma un personaggio vivo che si incontra con l’uomo che parla. A Mosè a rivelato il suo no,e: “Io sono Colui che è là”. Alla samaritana il Cristo dice: “Il Messia sono io che ti parlo”, rivelazione sconvolgente. E gli apostoli che vissero con Lui nel Vangelo raccontano cose concrete. San Giovanni nella sua prima lettera esprime certezze intramontabili quando dice: “Il verbo della vita noi l’abbiamo visto con i nostri occhi”. Poi la parola “visto” non l’accontenta e aggiunge ancora: “Lo abbiamo ascoltato con le nostre orecchie, lo abbiamo toccato con le nostre mani”». (10 marzo 1994)
«Domenica in albis. Gesù risorto ritorna dagli apostoli e li saluta: “la pace sia con voi”. Ma gli apostoli hanno paura, credono che sia un fantasma. É questo fatto storico che dobbiamo annunciare senza paura e rispetto umano».
«Ascensione. L’uomo religioso ha un’anima di povero e di fanciullo. Il vangelo è spirito di povertà e umiltà. La principale disposizione del credente è dimenticare se stesso nell’amore oblativo. Quindi è una rinuncia al suo istinto captativo di possedere». (23 maggio 1993)
«Solennità della Trinità. La festa della SS trinità ci presenta il mistero di un Dio Uno e Trino. La nostra è una religione di mistero: dove Dio è presente, lì c’è il mistero. E questa nostra adorazione del mistero non è un’umiliazione della nostra ragione, è semplicemente una condizione naturale dell’uomo, perché l’uomo è limite e quindi il mio modo di amare, il mio modo di vedere, il mio modo di capire è sempre molto limitato. (…) Cari fratelli il momento della vita della Chiesa incomincia con la Pentecoste e in questa domenica della Trinità prende consistenza ancora più evidente: il mondo della religione non ha confini».
«Solennità del Corpus Domini. Perché troppi uomini sono alienati: hanno venduto per due soldi la loro fede, la speranza e l’amore. Sono fuori di sé, sono andati dietro a delle passioni che li hanno travolti, hanno seguito movimenti che li hanno deviati. Ritornare in noi stessi: questo è il primo atto della conversione ed è il primo grande dono che ci fa la carità del Cristo eucaristico. Tornare in noi stessi: Allora si comincia a ragionare!» (9 giugno 1996)
«Festa del Sacro Cuore. Quando ero un bambino e nel giorno del Sacro Cuore si faceva una vera festa, il popolo cantava una canzone dedicata al Sacro Cuore: “Sacro Cuor d’amor ferito, d’amor santo i cuori accendi e partecipi li rendi della mamma tua vital”»
Chiudo questa recensione con una frase dello stesso don Mario:“SONO DIVENTATO PARROCO PER CONTAGIO”. Un’affermazione che ricorda l’Evangelii Gaudium che dice testualmente che la Chiesa non cresce per proselitismo ma per attrazione, cioè attraverso una testimonianza personale, un racconto, un gesto o la forma che lo stesso Spirito Santo può suscitare in una circostanza concreta.