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Profughi

Milano come Lampedusa:
«Ma si poteva fare di più»

L’analisi del sociologo Maurizio Ambrosini su un fenomeno che spesso è presentato dai media con lenti deformate. In due anni sono transitati circa 60 mila rifugiati, di questi si sono fermati in città solo qualche centinaia. «No a egoismi e nazionalismi»

di Pino NARDI

21 Giugno 2015

Sulla vicenda dei profughi «dire che le nostre città sono allo stremo è semplicemente ridicolo. Non si sono organizzate, l’Italia non ha una legge sull’asilo, non ha ancora preso sul serio fino in fondo le proprie responsabilità di Paese democratico e avanzato». È severo Maurizio Ambrosini, docente di sociologia dei processi migratori all’Università degli studi di Milano e direttore della rivista Mondi Migranti, nell’analisi di un fenomeno che trova ampio spazio nei media italiani, ma spesso con lenti deformate. Soprattutto dove l’ansia di non perdere voti condiziona non poco le risposte. Anche quelle di Milano.

La metropoli come sta gestendo la vicenda dei profughi?
A Milano sono transitati molti rifugiati, spesso incanalati dalle stesse autorità del Sud Italia. La stima è di circa 60 mila in due anni, ma se ne sono fermati pochissimi in città, qualche centinaia. Milano è una tipica tappa di transito, un punto di snodo: infatti in Stazione Centrale – almeno quando i flussi erano un po’ più ridotti – giovani musulmani intercettavano i siriani e si mettevano a disposizione per farli transitare verso il Nord Europa. Arrivano dal Sud, hanno bisogno di essere rifocillati, ospitati qualche giorno: i siriani hanno più mezzi e ripartono subito, gli eritrei in qualche settimana, i somali un po’ di più, ma vogliono ripartire. In generale quelli che rimangono in Italia, soprattutto al Sud, sono quelli che hanno meno punti di riferimento. Organizzare un’accoglienza in queste condizioni non è facile, capisco le difficoltà di gestire il transito più che l’accoglienza. Tuttavia Milano non ha brillato, come le Ferrovie che hanno messo i bastoni tra le ruote tanto che fino a pochi giorni fa non avevano dato la possibilità di installare strutture, neanche per le visite mediche. Lo stesso Comune è stato reticente, con disparità di vedute tra assessorati. Chi tratta di politiche sociali non ha voluto prendersene carico, perché probabilmente sa che si perdono voti. Anche la realtà ecclesiale poteva fare di più. Credo che ci sia solo una parrocchia che ha accolto profughi in tutta Milano.

Tuttavia sono molto impegnate realtà legate alla Caritas come Casa Suraya per i siriani, quella di Magenta, il Rifugio in Stazione…
Certo, però sono cooperative, sono impresa sociale. Mi riferisco al volontariato. Quello che si è mosso per i profughi in Stazione è più spontaneo e non connotato in senso ecclesiale.

La Caritas lamenta che il blocco verso l’Austria e la Francia sta facendo da tappo, non facilitando il transito e allargando il numero delle persone. Come valuta l’approccio europeo al fenomeno?
Penso che sia una manovra essenzialmente simbolica, teatrale. L’anno scorso ne sono passati 100 mila circa, perché dei 170 mila sbarcati solo 68 mila hanno chiesto asilo in Italia. Gli altri non sono – come ha scritto Gatti su L’Espresso – purtroppo “fantasmi che girano nelle nostre città”, hanno passato il confine con l’aiuto dei passatori e hanno chiesto asilo altrove. La Germania ha ricevuto 200 mila domande e non è affacciata sul Mediterraneo. Ritengo che il blocco sia una manovra simbolica e teatrale da parte francese, perché anche lì hanno il problema di dimostrare ai loro elettori che non accolgono i rifugiati, che ce ne sono troppi. Può darsi che questo abbia effetti di rallentamento, di riorganizzazione dei circuiti di passaggio e di transito.

Il «piano B» del governo (un permesso di soggiorno umanitario di breve durata) è una strada praticabile?
Da un punto di vista politico mi sembra una provocazione pericolosa, perché c’è il rischio di innescare una brutta guerra degli egoismi nazionali. In realtà sono numeri gestibilissimi: i 28 Paesi dell’Unione Europea accolgono meno rifugiati del Libano, della Turchia e della Giordania. Il problema è che da noi ci sono elettorati che non vogliono sentire parlare di immigrati né di rifugiati, comunque questo sposta voti. Ci sono partiti – come sappiamo – che soffiano sul fuoco e questo rende tutti più egoisti e nazionalisti.

Infatti viviamo nell’eterna emergenza…
Non gestiamo il fenomeno. Come aveva scritto L’Osservatore romano nel lontano 2011, non c’è come non gestire un problema per trasformarlo in emergenza. Quello che era a Lampedusa adesso si sta spostando a Nord, nelle città, alle frontiere sempre sotto l’insegna della drammatizzazione, di un senso di impotenza che non fa onore al nostro Paese. Se pensano di guadagnare voti e di non perderli rispetto alle forze ostili ai rifugiati secondo me sbagliano, perché usano linguaggi, immagini, retorica che in realtà fanno pensare che hanno ragione quelli che dicono “chiudiamo le porte e buttiamoli in mare”. Questo è il problema.

Soffiando sul fuoco delle paure, insomma la gente ancora vive questo fenomeno con grande ansia…
Sì, anche perché viene incitata in questo senso, con continui messaggi sulle malattie, sul terrorismo, sulle risorse sottratte ai poveri italiani. Come se fino al 2011, quando non si accoglievano i rifugiati se non in piccoli numeri, ci fossero politiche di grande generosità nei confronti dei disoccupati e dei poveri italiani.

Come sta cambiando l’immigrazione?
I rifugiati e persino gli sbarcati sono comunque pochi rispetto agli immigrati che entrano regolarmente in altro modo: nel 2013, 300 mila circa. Questi immigrati regolari, oggi per lo più europei, entrano soprattutto per ricongiungimento familiare. Questo è il principale cambiamento: l’immigrazione sta diventando sempre più europea e legata alla formazione qui di famiglie immigrate. È diminuita l’immigrazione economica della fase precedente, quella che entrava irregolarmente e poi si metteva in regola con le sanatorie. Pertanto c’è una percezione distorta della realtà: non vedono i dati, si guarda la televisione. Questa è la tragedia.

 

 

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