«S’io m’in-tu-assi come tu t’immii…». Così, con due arditissime invenzioni linguistiche, Dante esprime il dinamismo io-tu che si rivela decisivo per la sanità e la maturazione di ogni uomo, fin dal suo primo affacciarsi alla vita. Nella sorpresa del tu – misteriosa, eppure familiarissima alterità – si desta l’io – irriducibile identità. L’altro non è dunque un optional, ma condizione irrinunciabile perché ci sia l’io. Non un puro «accidente», ma qualcosa di costitutivo.
In tutti i tempi e a tutte le latitudini emerge nell’io un’apertura originaria, un invito a uscire da sé, che lo sospinge verso (in latino tale dinamismo è indicato dal verbo di-ferre) il tu. È questo un carattere inscritto in modo indelebile nella natura di tutti gli esseri umani. «Dio creò l’uomo a sua immagine (…) maschio e femmina li creò» (Gn 1,27): la Bibbia, con formula icastica, ce ne dice l’origine. La differenza sessuale si rivela dunque come una dimensione irrinunciabile dell’io. Così originaria che, se la si abolisse, l’essere umano ne risulterebbe «snaturato». L’uomo non sarebbe tale.
Senza dover ricorrere alle analisi più scaltrite degli esperti di scienze umane, basta uno sguardo semplice e leale sulla realtà per rilevare questo fenomeno assolutamente evidente: nessuno può esaurire in sé tutto l’uomo. Sempre avrà di fronte a sé l’altro modo (la donna per l’uomo e l’uomo per la donna), a lui inaccessibile, di esserlo. Possiamo pertanto dire, con Giovanni Paolo II, che l’uomo è, in realtà, l’unità duale di uomo-donna.
Il racconto della creazione della donna (Gn 2,18 ss.) ben descrive la percezione di tale irriducibile differenza da parte dell’uomo maschio, pur nella sua essenziale identità con la donna. Eva è cavata da Adamo per essere differente, anche se ha in comune con lui l’essenza personale. Dio la plasma con la costola di Adamo e gliela pone di fronte, come un interlocutore che egli non si può dare, né può, tantomeno, dominare come può fare con tutti gli altri esseri viventi (imporre il nome, nel linguaggio biblico, significa stabilire la propria signoria). Proviamo a raffigurarci lo sguardo di Adamo che vede per la prima volta Eva vicino a sé… Potremmo rinvenirne qualche traccia nello sguardo del bambino a sua madre cui ci siamo riferiti nella premessa. Fin dal principio la donna è posta davanti all’uomo (e viceversa) come un dono. Una presenza inimmaginabile, del tutto irriproducibile, eppure profondamente corrispondente a sé. L’uomo e la donna sono identicamente persone, ma sessualmente differenti. Tale differenza pervade tutto l’essere umano, fin nell’ultima sua particella: il corpo dell’uomo, infatti, è in ogni sua cellula maschile, come quello della donna è femminile.
La differenza sessuale si presenta così, a un tempo, come interna ed esterna all’io. Infatti se, da una parte, essa porta l’alterità all’interno della persona stessa, dall’altra ne segna la strutturale insufficienza, aprendolo al fuori di sé. «E Dio disse: “Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”» (Gn 2,18). L’altro è per me tanto inaccessibile quanto necessario. La natura sessuata rappresenta uno dei luoghi originari in cui l’uomo fa l’esperienza della propria contingenza creaturale. O – più precisamente, anche se in termini un po’ più tecnici – della propria ontologica dipendenza e della conseguente capacità di relazione. Il disegno originario di Dio nel farci maschi o femmine ha a che fare con l’educarci a capire il peso dell’io e il peso dell’altro. La differenza sessuale si rivela così come «scuola elementare» per l’uomo. Si tratta di imparare l’io attraverso l’altro e l’altro attraverso l’io. Il bisogno/desiderio dell’altro che, come uomo e come donna, io sperimento non è pertanto il marchio di un handicap, di una deficienza, ma piuttosto l’eco di quella grande avventura di pienezza che vive nell’Unitrinità di Dio, perché siamo stati creati a Sua immagine. «A immagine di Dio lo creò. Maschio e femmina li creò» (Gn 1,27). Il gioco dell’alterità, infatti, è in Dio stesso.
Dalla nostra fede abbiamo conoscenza del fatto, straordinario e misterioso, di un io che è all’origine di tutto, il Padre. Egli dona il proprio essere a un altro il quale, accogliendo totalmente tale dono e restituendolo, è generato, il Figlio. E la reciprocità tra i due è così perfetta che il frutto di questa relazione è Dio stesso, nella persona dello Spirito Santo. Nel mistero della Trinità è presente la più radicale differenza che si possa sperimentare o anche semplicemente intuire. La massima differenza all’interno della più assoluta identità. Quando per grazia – cioè attraverso Gesù – tale mistero ci è comunicato, tutto l’orizzonte e la profondità della nostra umana esperienza ne vengono illuminati.
Quanto detto spiega perché una cultura che non accetti la rivelazione del Dio Trinitario sia, in ultima istanza, incapace di pensare positivamente la differenza sessuale. Basta considerare quel che sta succedendo nella stessa nostra cultura europea. Perdendo il riferimento vivo alla fede in Gesù Cristo, che ne costituisce la radice, essa ha perso il senso della Trinità. Come conseguenza fa sempre più fatica a concepire la differenza, anche la differenza sessuale (…). Segnata dal tocco originario del Mistero, la differenza sessuale è qualcosa che ultimamente sfugge a ogni umano tentativo di definizione, né può essere catturata come un oggetto con il nostro pensiero. (…) D’altra parte essa non può essere abolita, senza snaturare l’io. Ma, poiché con il peccato originale il disegno del Creatore ha subito una profonda incrinatura, l’apertura originaria tra l’uomo e la donna ne è rimasta in un certo senso mortificata: la logica della reciprocità e del dono ha continuamente minacciato di corrompersi in logica del potere. Ma Gesù è venuto a riportare le cose alla verità dell’inizio.