Quello che emerge dal terzo Rapporto Giovani sui giovani italiani di età compresa fra i 18 e i 30 anni è un ritratto ampio e non scontato delle nuove generazioni.
La percentuale in Italia di neet (i giovani non in formazione e senza lavoro) è tra le più elevate nell’Unione Europea dopo la Grecia. È salita nella nostra penisola, relativamente alle persone tra i 15 e i 29 anni, dal 19,3% del 2008 al 26,2% del 2014 (ultimo dato disponibile).
Un dato che deriva dalla scarsa capacità di attivazione delle nuove generazioni nel mercato del lavoro e dalla inadeguata valorizzazione del loro capitale umano nel nostro sistema produttivo. Risente anche di una fragilità di partenza nel processo formativo. L’Italia si distingue per essere tra i Paesi più avanzati, in particolare, per un elevato tasso di abbandono precoce degli studi (il 15% non va oltre la terza media contro l’11% dell’Ue) e per una bassa percentuale di laureati (per i 30-34enni, rispettivamente il 22,4% contro il 36,9% – fonte: Istat 2015). Il tasso di occupazione dei laureati tra i 25 e i 34 anni è risultato pari al 62% nel 2014, 20 punti sotto la media del mondo sviluppato.
Assi portanti dell’edizione 2016 del Rapporto Giovani in distribuzione da aprile (La condizione giovanile in Italia – Rapporto Giovani 2016, Il Mulino) sono proprio la formazione, il lavoro e le scelte di vita, le relazioni familiari, la partecipazione sociale, assieme a quattro approfondimenti tematici (la mobilità internazionale, il confronto tra culture, lo svago e la fruizione dell’arte tramite le nuove tecnologie, l’economia della condivisione).
Dall’indagine emerge che l’88,3% dei giovani italiani è disposto a emigrare stabilmente pur di migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro. Oltre il 60% è disposto anche a trasferirsi all’estero, poiché vede la situazione del proprio Paese con maggior preoccupazione rispetto ai coetanei di Francia, Inghilterra, Spagna e soprattutto della Germania, e considera insufficienti le opportunità che esso offre. I giovani non si sentono una generazione “senza futuro”, una generazione “perduta”, ma, tuttavia, faticano a trovare la propria strada in Italia. Con il rischio quindi di diventare anche una generazione “dispersa”, non solo e non tanto in senso geografico, ma più nell’accezione di energia non usata in modo efficiente per produrre cambiamento e sviluppo. Col timore alla fine di essere ricordata come una generazione “sprecata”, ovvero non riuscita, nonostante le potenzialità, a raggiungere pieni e importanti obiettivi di lavoro e di vita.
Al di là dei livelli attuali di disoccupazione e sottoccupazione, quello che pesa è non sentirsi inseriti in processi di crescita, di essere inclusi in un percorso che nel tempo consenta di dimostrare quanto si vale e di veder riconosciuto pienamente il proprio impegno e il proprio valore.
Ciò, tuttavia, non significa che i giovani italiani non siano portatori di desideri, valori, motivazioni. Per capire pienamente il rapporto dei giovani con il mondo del lavoro non si può non tener conto anche della dimensione culturale ed emotiva e delle loro aspirazioni. Ma anche, viceversa, come possa essere limitativo indagare il disagio sociale delle nuove generazioni senza metterlo in relazione con le carenze di welfare e le difficoltà occupazionali. Una delle novità del Rapporto 2016 è il focus sulla scuola: la carenza di orientamento porta molti ragazzi a prendere decisioni poco coerenti con le proprie attitudini e con gli obiettivi professionali. Ciò determina scadimento delle motivazioni e basso profitto, insoddisfazione per il percorso attuato, disallineamento tra competenze acquisite e quelle richieste nel mondo del lavoro. I dati confermano l’importanza delle motivazioni personali e il cruciale ruolo dei genitori, sia nelle decisioni prese, sia nella possibilità di concludere con successo il percorso di studi. Nella scelta della facoltà universitaria, oltre alla qualità dei servizi offerti, viene sempre più presa in considerazione la spendibilità sul mercato del lavoro.
Fra i temi della ricerca anche quello relativo alla prospettiva di avere un figlio in relazione al contesto della crisi economica. Il confronto tra le intenzioni raccolte nell’indagine del 2015 e quelle del 2012 mostra un’apertura maggiore alla possibilità di mettere al mondo figli nei prossimi tre anni. Ci sono quindi segnali incoraggianti sulla possibilità che la riduzione della fecondità si possa fermare, ma molto dipenderà da quanto un’effettiva crescita economica e politiche familiari adeguate consentiranno di sostenere la trasformazione delle intenzioni positive in effettivi comportamenti virtuosi. Dal Rapporto 2016 emergono, in particolare, segnali rilevanti di quanto le nuove generazioni siano affamate di occasioni per mettersi in campo con le proprie idee e la propria energia positiva.
Testo tratto dall’introduzione de La condizione giovanile in Italia – Rapporto Giovani 2016