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Guido La Barbera

Discontinuità calcolata del papato di fronte alla sfida globale e multipolare

Lotta Comunista, n.511, marzo 2013

di Felice Asnaghi

18 Aprile 2013

Guido La Barbera, uno delle firme storiche insieme Arrigo Cervetto e Lorenzo Parodi del periodico Lotta Comunista (la più longeva tra le organizzazioni extraparlamentari nate negli anni sessanta) scrive un’accattivante analisi sull’elezione al soglio di Pietro di Jorge Mario Bergoglio arcivescovo di Buenos Aires. La conoscenza della storia personale del presule argentino, il taglio prettamente storico- scientifico della ricerca non lasciano spazio ai sentimentalismi e ai soliti luoghi comuni tipici della stampa italiana che ha infarcito le cronache vaticane di critiche a volte feroci o di esasperato buonismo (si veda il caso di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI aspramente giudicati all’inizio del loro pontificato e lodati al loro termine), puntando all’essenziale:

 

Dopo l’abdicazione di Joseph Ratzinger anche l’elezione al pontificato di Jorge Mario Bergoglio conferma l’opzione di una calcolata discontinuità, con la nomina del primo Papa non europeo dell’era moderna e con la scelta simbolica di un nome – Francesco – che preannuncia una revisione di equilibri, funzioni e stile di governo del centro romano.

 

La Barberapropone una chiave di lettura attraverso quelle categorie che  hanno caratterizzato il percorso umano dell’attuale Papa: argentina, latinoamericana e mondiale.

Cinquant’anni in Argentina di cui quindici alla guida della diocesi di Buenos Aires significano un’esperienza di lungo periodo in situazioni di eccezionale complessità.  Sul piano politico, agli anni di crisi della dittatura militare è seguita una tormentata normalizzazione. Sul piano economico e sociale, all’immigrazione europea si sono succeduti i flussi dai paesi confinanti e da un processo di urbanizzazione che ha concentrato l’85% della popolazione nelle città. Due crisi del debito hanno segnato la relazione esterna con i mercati finanziari internazionali e hanno scosso le condizioni interne per salariati e ceto medio. Buenos Aires si è trasformata in una città di quindici milioni di abitanti la cui periferia è una baraccopoli.

Lo stesso Bergoglio in una sua intervista su “El Jesuita” del 2010 descrive l’Argentina come un paese che passa di crisi in crisi, dove la propensione allo scontro fazioso è una vera patologia sociale, rimarca la sopravvivenza di una cultura del risentimento che ostacola la riconciliazione nazionale.

La Barberaapprofondisce il rapporto che la gerarchia cattolica intrecciò, a partire dai primi decenni del secolo scorso, con le élite creole (i discendenti da coloni spagnoli e per estensione a tutti quelli d’origine europea) e con un nazionalismo conservatore che osteggiava l’immigrazione europea a favore di un’identità argentina (mito della hispanidad) e che poi portò alla compromissione da parte di alcuni vescovi con la dittatura dei militari.

In Argentina, ma in generale in tutta l’America Latina si concentra la maggioranza dei fedeli cattolici del mondo e negli ultimi decenni si è evidenziato il fenomeno dell’erosione di milioni di fedeli causata dalle sette protestanti, segno della debolezza organizzativa della Chiesa. Un fenomeno che ha radici già dai tempi dell’espansione coloniale spagnola e portoghese il cui interesse era colonizzare e consolidare gli imperi. La Chiesa ne fu un’espressione diretta, ma con la fine del dominio coloniale e il ritorno in Europa di molti vescovi, il legame con Roma si affievolì e prevalsero le élite laiche ispirate al liberismo europeo o americano che accentuarono la separazione tra Chiesa e Stato avviando un processo di secolarizzazione. La Chiesa si fece trovare impreparata al cambiamento e scontò pesantemente la mancanza di un associazionismo (movimenti, associazioni, congregazioni e confraternite) di stampo popolare e di un clero indigeno capace di guidare i fedeli. Così si cercò di tamponare con la richiesta di missionari provenienti dal vecchio continente e dal Nord America.

Nei decenni sessanta – ottanta si era aperto uno spinoso fronte all’interno della Chiesa stessa che trovò nella teologia della liberazione la sua massima espressione. In questo contesto, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, gli arcivescovi Bergoglio e Hummes (San Paolo Brasile) trovarono la mediazione ottimale per far rientrare le tensioni, mettendo in moto una ripresa della dottrina sociale della Chiesa in favore degli ultimi. Padre Bergoglio contò molto sui “curas vileros”, la seconda generazione di parroci inviati nelle “villas”, le borgate di periferia di Buenos Aires, che avevano rimpiazzato i preti terzomondisti dai caratteri ideologici fortemente segnati dalla teologia della liberazione ed in buona parte provenienti dall’Europa.  Bergoglio riorganizzò il clero, formò le associazioni, fronteggiò le sette protestanti e si fece carico delle esigenze della gente.

 

Jorge Bergoglio si presenta a Roma come esponente di una Chiesa che comunque nel giro di alcuni decenni ha preso a riprodursi autonomamente, e che ha riassorbito una crisi interna in cui si rispecchiava con grandi rischi anche l’istanza di una specifica via latinoamericana distinta dall’orientamento romano. Ciò detto non si può interpretare la sua elezione solo come espressione diretta della componente latinoamericana nei nuovi equilibri del centro vaticano, se non altro perché l’essere il nuovo pontefice un gesuita è il segno dell’appartenenza a un corpo scelto di respiro internazionale. È vero però che un papa non più europeo sottolinea la questione delle forme della centralizzazione cattolica, nella dialettica di grandi aree di radicamento che si trovano ad interagire con un assetto multipolare della globalizzazione.

 

In pratica si accentua, ancora una volta, la diatriba tra centralismo romano e bisogno di maggior autonomia e autorità delle chiese locali. Si potrebbe semplificare il discorso affermando che la Chiesa cattolica è universale e non un’entità europea con ramificazioni altrove, ma questo concetto deve fare i conti con il radicamento delle chiese locali nei singoli Stati che tendono, di fatto, ad accrescere la propria potenza a scapito di altri.

 

Nella dialettica tra primato romano e chiese locali, tutte le volte che tendenze centrifughe hanno preso forma non è stato per sola logica interna all’organizzazione cattolica, ma perché forze reali ne avevano afferrato un reparto. La Riforma di Lutero fu opera della borghesia tedesca al suo esordio, lo scisma anglicano fu mosso dalla monarchia inglese, nel gallicanesimo c’era la potenza dello Stato francese e così via. Perfino nella teologia della liberazione si rispecchiava paradossalmente lo sviluppo capitalistico e l’ascesa in potenza dell’America Latina.

 

In questa dialettica si inserisce il ruolo della Curia romana che proprio durante il pontificato di Benedetto XVI ha ricevuto critiche pesanti fino ad attribuire ad essa errori diplomatici non secondari.

L’arcivescovo di Vienna Christoph Schönborn, attraverso il settimanale “Profil”,  sostiene che la Chiesa mondiale:

è una responsabilità indivisibile della persona del Papa, come lo è per ogni vescovo nella sua diocesi…. e la Curia serva il primato del Papa in modo ragionevole e non lo sostituisca.

 

La chiusura di questo articolo è in una riflessione di Joseph Ratzinger del 1969 nella quale si spinge ad ipotizzare il recupero dell’assetto plurale della Chiesa nei primi secoli.  Una semplice decentralizzazione, una divisione in regioni il più possibile autonome non è la soluzione. La vera formula è “il pluralismo nell’unità, unità nel pluralismo”; primato romano e principio collegiale dei vescovi devono essere complementari e non in concorrenza.

Che cosa sarà di questo processo plurale ora che a sostanziarlo sono potenze di stazza continentale, come il Brasile, l’India o come la Cina che da sola peserà come l’Occidente intero, nessuno è in grado di dirlo.