«Il solo voto unanime è stato per l’attore greco di Miss Violence, quasi un simbolo ricorrente nel programma della Mostra: la disgregazione della famiglia e la violenza domestica». Il direttore della Mostra di Venezia, Alberto Barbera, svela a posteriori alcune dinamiche che hanno portato la giuria presieduta da Bernardo Bertolucci al verdetto della 70esima edizione del Festival, la cui selezione – anche alla vigilia – era stata annunciata “in linea” con il profondo momento di crisi vissuto in questo particolare momento storico: «Una macrofotografia a 360° dei nostri giorni», diceva Barbera.
Direttore che, per la prima volta nella storia della Mostra, è stato capace di inserire in concorso due documentari, The Unknown Known di Errol Morris e Sacro GRA di Gianfranco Rosi. Scelta vincente, come dimostra il Leone d’Oro assegnato a quest’ultimo, regista che quindici anni dopo Così ridevano di Gianni Amelio riporta l’Italia alla vittoria del Festival.
È un’affermazione forte, un riconoscimento che certifica definitivamente la morte di una ghettizzazione (per la prima volta un documentario vince a Venezia, a Cannes è successo nel 2004 con Fahrenheit 9/11 di Michael Moore e nel 2008 con La classe di Laurent Cantet), dimostrando con forza che la barriera tra cinema del reale e cinema di finzione è stata abbattuta.
Un premio che deve essere inteso soprattutto in questo senso visto che, proprio come accaduto l’anno scorso con il film più bello del Concorso (The Master di Paul Thomas Anderson, Leone d’Argento e Coppa Volpi ai due interpreti maschili), quest’anno la giuria presieduta da Bertolucci ha voluto ribadire con due premi di peso la qualità di un film, il sopracitato Miss Violence, che ottiene il Leone d’Argento per la regia di Alexandros Avranas e la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile (Themis Panou).
Era questo, forse, il film più “forte” dell’intero Concorso, e non solo per la delicata tematica affrontata. Ma l’indicazione arrivata da Bertolucci insieme agli altri 8 giurati (anche se, ricordiamolo, non all’unanimità) non deve essere sottovalutata, perché come ha ricordato lo stesso Gianfranco Rosi, «non deve esistere una separazione ideologica tra documentario e cinema di finzione, quello che conta è saper distinguere ciò che è vero da ciò che è falso». Proprio quello che tenta di fare un’opera come Sacro GRA (che arriverà nelle sale italiane il 26 settembre), viaggio tra l’umanità nascosta ai margini del Raccordo Anulare di Roma.
Anche in questa direzione, allora, vanno decifrati gli altri due importanti riconoscimenti assegnati a La moglie del poliziotto di Philip Groening e a Stray Dogs di Tsai Ming-liang, rispettivamente Premio Speciale della Giuria e Gran Premio della Giuria: i due film forse più ostici di Venezia 70, e non solo in termini di durata (172’ e 138’), opere “esemplari” che tentano di ragionare sul cinema non solo in termini di racconto, ma che provano ad andare oltre il concetto stesso di visione, quasi costringendo lo spettatore a riconsiderare le coordinate del tempo (quello di Tsai Ming-liang) e la sua frammentazione (quello di Groening).
In quest’ottica, non bisogna dunque sorprendersi se Philomena di Stephen Frears ha ottenuto solo il premio per la miglior sceneggiatura: mettendo d’accordo praticamente tutti, il film con Judi Dench si allontana però dai requisiti di “sorpresa” che lo stesso Bertolucci aveva invocato di scorgere tra le opere in Concorso. Che Judi Dench sia un’attrice straordinaria non lo scopriamo oggi: magari la Coppa Volpi femminile ad Elena Cotta (per Via Castellana Bandiera) va letta proprio così, attraverso un’interpretazione (muta) di straordinaria intensità, con la quale un’attrice di 82 anni dimenticata dal cinema (non dal teatro), è riuscita a “sorprendere” i giurati, e non solo. Ma Venezia 70 non è solamente riconoscimenti ufficiali, bensì quelli collaterali, quali il Premio Signis, che ha celebrato la propria 65esima presenza al Lido.
L’ha fatto assegnando il premio a Philomena di Stephen Frears, che «offre un intenso e sorprendente ritratto di una donna resa libera dalla fede. Nella sua ricerca della verità, sarà sollevata dal peso di un’ingiustizia subita grazie alla sua capacità di perdonare». L’Associazione Cattolica Mondiale della Comunicazione ha attribuito anche una menzione speciale ad Ana Arabia di Amos Gitai, con la motivazione: «È un film-manifesto sull’importanza della tradizione orale e un altro fulgido esempio nella filmografia del regista israeliano di come il cinema possa trasformarsi in ‘strumento di speranza’: per proseguire sulla strada della coesistenza e del dialogo».
A Philomena, inoltre, è andato il Premio per la Promozione del Dialogo Interreligioso, assegnato dalla Giuria Internazionale di Interfilm, che vuole richiamare l’attenzione su opere che rafforzano la mutua comprensione, il rispetto e la pace tra diverse tradizioni religiose e filosofiche.
Ancora, il Premio Civitas Vitae – Rendere la longevità risorsa di coesione sociale, assegnato a un regista o interprete capace di veicolare un’immagine al di fuori degli schemi di una persona longeva, è stato attribuito al regista Uberto Pasolini per Still Life, inserito nella sezione Orizzonti, dove ha vinto per la migliore regia: «Suonando il valzer degli addii – si legge nella motivazione – ridà a chi è morto in assoluta solitudine il primo privilegio di un uomo: una storia, la propria. Impiegato del Comune incaricato di trovare i parenti di chi è deceduto, il protagonista Eddie Marsan incarna magnificamente le virtù del film: rispetto raro, sensibilità umanista e commozione senza tranelli. Still Life getta un ponte tra i vivi e i morti, portandone alla luce i legami che non si sciolgono».