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Tifo violento, serve un’azione su più fronti

Per il pedagogista Mario Pollo il teppismo intorno agli stadi «permette a chi vive in situazione di anonimato ed emarginazione di assumere un protagonismo sociale. Quella repressiva è solo una parte della risposta, mentre manca quasi sempre l'azione di prevenzione del fenomeno»

3 Settembre 2008

04/09/2008

«In casi come questi, si pensa in genere soltanto a come reprimere il fenomeno: invece serve un’azione su più fronti, capace di incidere soprattutto sul versante della prevenzione, che al contrario dei provvedimenti repressivi richiede tempi medio-lunghi». Il pedagogista Mario Pollo interviene sulla questione del tifo violento, tornato all’onore delle cronache dopo gli scontri di domenica scorsa alla stazione Termini di Roma, prima e dopo la partita Roma-Napoli.

«Se si cerca di andare in profondità, al di là degli atti di teppismo – spiega Pollo – queste manifestazioni violente consentono ai protagonisti di vivere, sia pure in maniera molto attenuata, l’esperienza della guerra, che come scriveva Levinas offre l’orizzonte di senso di una “totalità” che si esprime attraverso forze che li comandano a loro insaputa». Una «totalità» che viene però raggiunta «fuggendo da sé, dalla propria vita, dalla propria identità personale», e che dà senso a «una vita quotidiana caratterizzata da un senso di vuoto, di incompiutezza, quasi di nullificazione».

I giovani che scelgono questa strada, spiega l’esperto, «vogliono fuggire dall’angoscia, perché non riescono a sapere chi sono guardandosi nell’altro, nella vita di relazione, ad avere obiettivi di futuro, ma li cercano in questa forma estrema di distruzione». Dietro episodi come questi, dunque, «c’è un malessere, un disagio profondo che va cercato nella vita quotidiana».

Una sorta di «scorciatoia distruttiva che non porta da nessuna parte», ma che «permette soprattutto a persone che vivono in situazione di anonimato, emarginazione, anomia urbana, di assumere un protagonismo sociale». Il tifo, in questo caso, «è un pretesto, di fatto non c’entra nulla: il calcio è un luogo dove c’è questa occasione, ma se capita ce ne possono essere anche altre».

Vietare o meno le trasferte? Conclude Pollo: «Quella repressiva è solo una parte dell’azione sociale possibile, mentre manca quasi sempre l’azione di prevenzione del fenomeno», tesa da un lato a «offrire ai giovani percorsi per una progettualità di vita», dall’altro a creare nei contesti urbani «infrastrutture, reti di carattere educativo, sociale, culturale, di apprendimento, ricreative, in grado di offrire futuro».