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Sirio 09 - 15 dicembre 2024
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Motociclismo

Dietro la tragedia di Simoncelli

Malgrado i progressi fatti nel campo della sicurezza, il fattore di rischio non può essere del tutto eliminato

di Mauro COLOMBO

24 Ottobre 2011

Il triste elenco di incidenti mortali che nella storia del motociclismo hanno preceduto la tragedia di Marco Simoncelli – caduto con la sua Honda e travolto dai bolidi di Colin Edwards e Valentino Rossi che lo seguivano, al secondo giro del Gran premio di Malesia disputatosi ieri per il Mondiale della Moto Gp – negli ultimi anni si fa decisamente più scarno. A testimonianza dei notevoli progressi introdotti nel campo della sicurezza. Sono stati eliminati dal calendario delle competizioni – o radicalmente trasformati – circuiti ritenuti troppo pericolosi. Si è intervenuti sui mezzi, sulle tute dei piloti (integrate da numerosi elementi di protezione), su tempi e modi del soccorso in pista. Però Simoncelli è morto, e ci si chiede il perché.

Gli esperti hanno sviscerato tutte le possibili cause. Si è parlato delle gomme, lente a entrare “in temperatura” e quindi a garantire la necessaria aderenza. O del controllo elettronico della trazione, che in teoria aiuta il pilota a mantenere in pista la moto, ma che nel caso di Simoncelli – impedendogli una “logica” scivolata verso l’esterno – l’ha riportato nella traiettoria corretta, condannandolo allo scontro fatale. Oppure, ancora, del collo dei piloti, parte del corpo insufficientemente tutelata dai potenziali traumi.

Si può ipotizzare tutto e il contrario di tutto, insomma. Quel che è certo è il fattore di rischio insito negli sport motoristici. Soprattutto all’inizio di un Gran premio, quando i piloti scorrono in fila indiana formando il cosiddetto “trenino”, se uno cade, quanto è capitato a Simoncelli è purtroppo più che possibile. Inoltre, rispetto ai piloti di Formula 1 – altro mondo in cui la sicurezza ha obiettivamente compiuto passi da gigante -, i centauri sono decisamente più vulnerabili, esposti come sono agli impatti senza una carrozzeria che li protegga. Se poi, come a Sepang, tutte le peggiori circostanze ipotizzabili si concretizzano, è inevitabile pensare alla fatalità. .

Questo non vuol dire far finta di niente. Il primo omaggio che si può fare a chi muore a 24 anni come “Sic” è quello di continuare a impegnarsi per far sì che quel margine di fatalità continui a ridursi. Eliminarlo non è possibile. E i piloti sono i primi a saperlo.