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Lavoro

Le forme sempre nuove del precariato

La recente legge “Fornero” cerca di mettere ordine in questo campo

di Vincenzo FERRANTE Università Cattolica di Milano

19 Marzo 2013

Un problema di grande rilievo nel panorama del mondo del lavoro è rappresentato, oramai da più di venti anni, da quella particolare forma di precariato che va sotto il nome di collaborazioni coordinate e continuative (in acronimo: co.co.co.).

Si tratta di una forma di lavoro che si è sviluppata al di fuori di ogni regolamentazione espressa, sulla base di una prassi, che ha trovato grande diffusione soprattutto negli ultimi anni del secolo scorso, quando fu chiaro a tutti che bastava poco per presentare i neoassunti non come lavoratori subordinati, destinatari dell’imponente serie di norme protettive che il Parlamento aveva emanato dagli anni ’70 in poi, ma come “collaboratori”, privi di ogni tutela, anche la più elementare, perché sostanzialmente parificati ai liberi professionisti.

Ed infatti, sotto questa etichetta venivano a collocarsi sia lavoratori anziani, spesso già in pensione, sia professionisti avviatissimi (come per esempio gli amministratori di condominio), sia giovani laureati, tutti accomunati da una (spesso solo dichiarata) grande esperienza e professionalità, che faceva sì che ad essi si applicassero quelle poche norme che l’ordinamento prevede per i lavoratori autonomi con prestazione prevalentemente personale.

A fronteggiare il fenomeno, in verità, sarebbe bastata una attività di vigilanza più attenta, sia da parte dei servizi ispettivi del Ministero del lavoro, sia da parte dell’Inps (che, in conseguenza della qualificazione data a questi lavoratori, veniva a perdere integralmente il gettito contributivo relativo ai compensi da essi guadagnati). Su una tale soluzione, però, si registrava un consenso politico bassissimo, a ragione del fatto che si considerava troppo rigida la normativa relativa alla disciplina del lavoro subordinato, di modo che si affermava che queste forme erano le sole che consentissero alle imprese italiane una flessibilità pari a quella altrove riconosciuta da legislazioni meno attente ai diritti individuali dei lavoratori.

Si tentò quindi di arginare la crescita di queste forme “atipiche” di lavoro, prima istituendo una contribuzione obbligatoria, seppure in misura inferiore rispetto a quella prevista per i subordinati (legge numero 335/95), poi cercando di regolamentare la figura attraverso la creazione di un nuovo “tipo” di lavoro (il “contratto a progetto”), che avrebbe dovuto separare le collaborazioni genuine, da quelle che, al contrario, mascheravano veri e propri rapporti di lavoro subordinato, spesso coinvolgendo ignari giovani alle prime esperienze.

Le previsioni della cosiddetta “legge Biagi” (decreto legislativo 276/2003) che in questo senso disponevano sono state però spazzate via dalla giurisprudenza, che ne ha messo correttamente in luce le insufficienze, e quindi la loro incapacità di mettere ordine in un campo nel quale non sempre è facile anche solo percepire con esattezza le concrete modalità con cui il rapporto si svolge.

Si era comunque oramai cominciata a mettere a fuoco la questione, riconoscendo la debolezza di questi lavoratori, e quindi assicurando loro, attraverso vari provvedimenti legislativi, quanto meno le stesse tutele di un libero professionista (in caso di maternità, ricovero ospedaliero e trattamento pensionistico).

La recente legge “Fornero” (numero 92 del giugno 2012) cerca di mettere ordine anche in questo campo, limitando enormemente il ricorso al contratto “a progetto” e prevedendo altresì notevoli limitazioni per quelle forme, ancora più evolute, nelle quali, ad apparente riprova della autonomia del lavoratore, si impone a questo di aprire una apposita posizione fiscale (le cosiddette “partite Iva”).

La norma prevede, infatti, che quando una certa quota del fatturato sia riferibile ad un solo cliente e quando il lavoratore operi sistematicamente all’interno dei locali aziendali di questo stesso, si sia in presenza di un vero lavoro subordinato e il “committente” sia quindi costretto ad integrare il compenso corrisposto, pagando almeno ferie, tredicesima e trattamento di fine rapporto.

La norma è buona e dovrebbe spingere le imprese a prendere coscienza del fatto che sono sempre troppi i rapporti di “collaborazione” che debordano dai limiti del lecito, dichiarandosi sulla carta competenze specialistiche del tutto inesistenti (perché ancora da acquisire da parte di giovani laureati) o una pluralità di clienti (spesso tutti riconducibili ad un solo gruppo di imprese). Le imprese (e i tanti liberi professionisti che ricorrono comunque a queste forme) però non sembrano ancora essersi rese conto che la musica sembra cambiata, di modo che quando, fra poco, verrà a scadenza il breve periodo di transizione previsto dalla legge, sussiste il rischio che questi rapporti vengano, invece che trasformati in (più) stabili contratti di lavoro subordinati, ad essere “sommersi” nella classica forma di lavori puramente “in nero”.