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Professionalità e umanità, un sollievo nella disperazione

La testimonianza della moglie di un paziente in stato vegetativo permanente: «Grazie al Palazzolo per non avermi lasciata sola»

5 Giugno 2008

27/05/2008

di Alessandra PEVERINI

Ringrazio il presidente della Fondazione Don Gnocchi mons. Angelo Bazzari, il direttore generale Silvio Riboldazzi e il direttore dell’Istituto Palazzolo Don Gnocchi dr. Maurizio Ripamonti per avermi dato l’occasione di poter esprimere i miei sentimenti riguardo la tragedia che mi ha colpito anni fa e la gratitudine che provo nei confronti di quest’Istituzione per non avermi lasciata sola e avermi dato un concreto sollievo in quel momento di disperazione.

Una sera di marzo di 6 anni fa, la vita di mio marito Ugo fu spezzata da un arresto cardiaco. Di quella sera ricordo l’incredulità, il panico e poi l’intervento del medico, i tentativi ripetuti di rianimarlo, poi il suo cuore che tornava a battere e la corsa in ospedale. In pochi minuti ero passata dalla normalità all’angoscia di averlo perso, alla gioia di saperlo ancora vivo.

Sono seguiti giorni di attesa del suo risveglio, giornate intere passate davanti alla porta del reparto di rianimazione per vederlo solo per pochi minuti. Mi è rimasta impressa quella sensazione di gelo che mi trasmettevano quelle stanze dove dominavano i freddi macchinari.

Nonostante quello che i medici, con i riguardi del caso, cercavano di dirci, di farci comprendere, noi familiari eravamo convinti che Ugo si sarebbe svegliato; quella diagnosi di coma vegetativo permanente era una condizione così distante e assurda per un uomo di 42 anni nel pieno della vita: non potevamo accettarla.

Ma i giorni passavano e le condizioni di Ugo non accennavano a migliorare; mi sentivo come avvolta in una nebbia, senza un punto di riferimento, circondata dall’affetto dei parenti e degli amici, ma in realtà profondamente sola.

Il desiderio più grande era quello di vedere Ugo uscire da quel reparto, ma quando ci comunicarono che si era stabilizzato clinicamente mi chiesi con angoscia dove avremmo trovato per lui un’assistenza adeguata, perché in queste circostanze, al dolore per lo sconvolgimento della propria vita, si aggiunge la sensazione di panico per una situazione che ci sentiamo inadeguati ad affrontare e che trova nelle strutture pubbliche una insufficiente risposta; insufficiente perché dovuta alla carenza di posti-letto per pazienti con questa patologia, che rischiano così di passare dalle cure estremamente attente che ricevono nei reparti intensivi a reparti medici inadeguati, sia per disponibilità di personale, sia per addestramento dello stesso.

Incominciò quindi la ricerca di una struttura per lunga degenza adatta alle necessità di Ugo. Ci fu subito chiaro che la situazione di fabbisogno assistenziale per questo tipo di pazienti era critica, perché a fronte di una evoluzione delle tecniche rianimative – che hanno notevolmente aumentato la possibilità di sopravvivenza – non corrispondono strutture pubbliche adeguate. Bussammo a molte porte di istituti specializzati nella lunga degenza, ma la risposta era sempre la stessa: non siamo in grado di assistere un paziente di questo tipo.

Si stava delineando addirittura la possibilità di dover ricoverare Ugo fuori Milano quando ci fu consigliato di interpellare l’Istituto Palazzolo Don Gnocchi. Trovammo nella persona del suo direttore di allora, il dr. Gianbattista Martinelli, ascolto e comprensione. Neanche il Palazzolo era predisposto per l’accoglienza di persone in coma vigile, ma ciò non impedì al dr. Martinelli di raccogliere questa sfida, tanto da decidere di dedicare alcuni letti della propria Rsa a questo tipo di pazienti. Una sfida vittoriosa, dato che oggi è stata inaugurata una nuova unità di accoglienza per persone in stato vegetativo permanente.

Le strutture destinate ad accogliere pazienti in coma vegetativo devono riuscire in un compito arduo: realizzare la giusta mediazione tra competenza professionale e competenza in ambito sociale. In base alla mia esperienza, posso dire che è esattamente ciò di cui Ugo ha usufruito in questi anni.

Se c’è una parola che mi viene in mente nel pensare alle persone a me divenute ormai familiari – come in particolare la dr.ssa Guya Devalle, suor Rita, suor Ameliana e tutti gli operatori di reparto -, questa parola è amore. E’ l’amore nelle cure di ogni giorno, da quelle più semplici e umili a quelle più impegnative.

Ugo ha bisogno della professionalità di un reparto di rianimazione, ma anche del calore e dell’umanità di persone che lo amino. Non c’è operatore che entri nella sua stanza senza parlargli o anche solo chiamarlo per nome con la familiarità che si ha per una persona cara, e non c’è stata volta che, a fronte di un suo peggioramento, non mi sia stato spiegato tempestivamente cosa stava succedendo e come si sarebbe intervenuto, facendomi sentire supportata e mai sola.

Per me, e concludo, l’accoglienza di Ugo in questa struttura e il modo in cui è stato ed è curato è stata ed è la prova che la tanto bistrattata sanità del nostro Paese ha isole di grande valore, dove il progresso tecnico e scientifico è supportato e umanizzato da un profondo senso di carità cristiana.