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Chiesa e città, il valore della persona

Dopo la recente presa di posizione della Curia di Milano circa le modalità con cui è stato effettuato lo sgombero del campo rom di via Bovisasca, l'opinione di Francesco D'Agostino, presidente dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani: «Le istituzioni ecclesiastiche fanno benissimo a invocare il rispetto dei diritti umani fondamentali, e non devono essere lasciate sole in quest'appello»

5 Giugno 2008

10/04/08

a cura di Francesco ROSSI

«Solo la Chiesa può rivolgere un appello profetico perché i rom non siano solo persone nel senso giuridico della parola, ma vengano considerati alla stregua di fratelli, nei confronti dei quali esiste un dovere di solidarietà e di prossimità amicale». Così Francesco D’Agostino, docente di filosofia del diritto all’Università “Tor Vergata” di Roma e presidente dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, spiega il «compito specifico» dell’istituzione ecclesiastica nel levare la propria voce a difesa degli ultimi, e in particolare delle persone di etnia nomade. Periodicamente, su questo fronte si registrano polemiche a seguito di provvedimenti adottati o anche solo paventati.

Sgomberi di campi rom contestati da più parti, provvedimenti contro l’accattonaggio e altre attività di strada, ecc: sono tutte questioni che interessano marginalità sociali. Su questo fronte, quali sono i doveri dell’istituzione pubblica?
La prima risposta non può che essere di carattere formale: il primo dovere delle istituzioni civili è quello di garantire la corretta applicazione delle leggi vigenti, per cui, nei limiti in cui queste, per esempio, proibiscono l’accattonaggio o vincolano ad alcuni obblighi come quello scolastico, è compito delle istituzioni operare per la certezza del diritto. Questa risposta è corretta, ma è solo formale.

E in concreto?
Non c’è dubbio che in molti casi il sistema giuridico vigente è calibrato su pratiche culturali e stili di vita che non sono condivisi da gruppi minoritari della popolazione. I nomadi, per esempio, difficilmente possono accettare l’idea di una residenza anagrafica definita o dell’obbligo scolastico per i bambini. Così come forme di accattonaggio per noi intollerabili fanno parte di tradizioni che certe popolazioni non reputano biasimevoli. Questa è una presa di coscienza non formale dello spessore di certi problemi, che non si possono affrontare e risolvere con la rigida applicazione di regole vigenti, ma richiedono una politica sociale “creativa” di pratiche sociali e norme.

Alcuni comportamenti, però, sono ritenuti inaccettabili da gran parte della popolazione, che invoca “sicurezza e legalità”. È possibile far conciliare tale richiesta con una solidarietà sociale, che tenga conto di queste minoranze e di quanti sono, a diverso titolo, marginali nella società?
Se esistessero standard per gestire queste questioni saremmo nell’ambito della normale amministrazione; invece sono problemi straordinari, che richiedono amministratori all’altezza della situazione, il che è sempre più difficile a ottenersi. Ma non possiamo illuderci di poter trasformare situazioni straordinarie in situazioni di ordinaria amministrazione. Bisognerebbe fare in modo che questi problemi venissero gestiti da un piano nazionale elaborato attivando le migliori energie intellettuali del Paese, e non scaricati sulla testa degli amministratori locali. Credo che ci vorrebbe una legislazione nazionale: sui nomadi, per esempio, si potrebbe pensare a uno statuto speciale, se davvero si vuol rispettare la loro tradizione culturale.

Su queste questioni sovente si leva la voce della Chiesa, a volte anche con toni critici verso i provvedimenti delle istituzioni. È un’ingerenza, o rientra nel suo compito specifico?
La Chiesa fa benissimo a invocare il rispetto dei diritti umani fondamentali, e ci auguriamo non venga lasciata sola in quest’appello: tutta la società civile deve sentire questo dovere, facendo appello proprio alla sua “coscienza civile”. L’istituzione ecclesiastica, in quanto radicata sul territorio e con una dimensione rappresentata dai vescovi e dalle diocesi, è legittimata a chiedere ad alta voce che i diritti umani siano difesi, tutelati e promossi. Altro piano, esclusivo e specifico della Chiesa, è il “messaggio profetico” che ha per oggetto i diritti umani: qui essa ha il compito di ricordare a tutti che il valore della persona è intangibile e va tutelato, soprattutto nelle situazioni di estrema difficoltà e conflittualità sociale. Esortando al rispetto dei diritti dell’uomo, la Chiesa cura un’animazione spirituale tesa a mantenere il tema dei diritti al centro della cultura contemporanea, annoverandolo tra quei valori più intrinsecamente radicati nella tradizione occidentale. L’appello profetico non può svuotare l’attenzione istituzionale della Chiesa, e d’altra parte quest’attenzione non può essere considerata sufficiente e rendere superfluo l’appello profetico.