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Sirio 09 - 15 dicembre 2024
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Comunicazione

Pensare prima di parlare

Il messaggio del Papa nell’opinione di padre Franco Occhetta, consulente ecclesiastico dell’Ucsi, che dal 26 al 29 gennaio tiene il Congresso nazionale a Caserta

a cura di Francesco ROSSI

24 Gennaio 2012

Un punto di riferimento per chi fa comunicazione, per tornare ad assolvere il proprio «ruolo sociale». Il gesuita Francesco Occhetta, giornalista e scrittore de La Civiltà Cattolica, così interpreta il ruolo dell’Unione cattolica stampa italiana, di cui è consulente ecclesiastico dall’inizio del 2010, alla vigilia del XVIII Congresso nazionale dell’associazione (Caserta, 26-29 gennaio), che avrà per tema “La credibilità dell’informazione in Italia: verso un giornalismo di servizio pubblico”.

“Silenzio e parola: cammino di evangelizzazione” è il tema scelto dal Papa per la prossima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. Qual è il significato del silenzio per gli operatori della comunicazione?
È il silenzio che fa nascere la parola, le dà forza e senso. La vita pubblica del Signore che inizia nel silenzio lo testimonia. Prima di parlare è necessario ascoltare e ascoltarsi. Il Papa vuole richiamare questo: nella velocità delle parole dette e ricevute, quelle che entrano nel cuore per lasciare un segno nascono da una riflessione. Va detto che c’è gente del mondo della comunicazione la cui parola è spirituale, è legata cioè a un senso. Per i comunicatori che invece parlano prima di pensare, invece, rimane come consiglio l’antico proverbio: «Un buon tacer non fu mai scritto».

In un mondo dove appare chi fa più “rumore”, come discernere il valore di un messaggio?
Oggi sta cambiando la figura del giornalista: potenzialmente lo potremmo essere tutti, attraverso mille modi per esprimere un pensiero e un punto di vista. Le parole e le notizie credibili sono dunque quelle che nascono dalla testimonianza credibile di chi le comunica.

Secondo la recente indagine Censis/Ucsi i giornalisti sono ritenuti poco affidabili (dal 49,8% degli italiani), poco oggettivi (53,2%), poco indipendenti (67,2%). Dunque, come acquistare credibilità?
La credibilità di colui che comunica si deve fondare sul rispetto della verità delle notizie, delle persone coinvolte, delle fonti consultate, degli editori e dei lettori. Il giornalismo è chiamato a ritrovare la sua più nobile missione, quella di dare voce a chi non l’ha, perché la credibilità si fondi sull’integrità, l’affidabilità e la coerenza del giornalista, che possono essere definite anche come forme di un’alta forma di fedeltà alla democrazia. Più che di etica, rimango convinto che valga la pena ritornare a riflettere sull’antropologia, sul modello di uomo che vogliamo formare, servire e difendere nello spazio pubblico.

Che ruolo hanno oggi i media locali, e in particolare i periodici diocesani? Dinanzi – da un lato – all’ascesa di Internet e della globalizzazione e – dall’altro – alle crescenti difficoltà economiche, quale futuro li attende?
La crisi della carta stampata e l’utilizzo di Internet per ricercare le notizie stanno mettendo a dura prova il giornalismo classico che, preoccupato di ‘arrivare per primo’ sulla notizia, aumenta gli errori e diminuisce il controllo sull’attendibilità delle fonti. Tuttavia un modello di giornalismo che gli italiani stanno premiando è quello della stampa diocesana che ogni settimana con il suo milione di copie circa dà voce alle realtà locali. A mio giudizio per due motivi: entra nelle case e parla di tutto ciò che riguarda la dimensione locale; conserva uno spirito di collaborazione e di gratuità che il giornalismo ha perso. Questo tipo di esperienza giornalistica, anzitutto, investe sulla comunicazione legata al territorio, agli interessi locali, alle tradizioni culturali, creando identità, senso d’appartenenza e costruzione di ponti tra le culture. Si tratta di un giornalismo che in genere non è polemico ma costruttivo, in cui esercitano la professione giornalisti professionisti e molti giovani giornalisti pubblicisti che spesso scrivono come forma di volontariato culturale, acquisendo negli anni competenza ed esperienza. La stampa diocesana deve guardare in alto, fare cultura, aiutare a discernere i problemi aperti, essere al servizio della Chiesa locale e della società.

Alla vigilia del suo Congresso nazionale, quale “missione” ha oggi l’Ucsi?
L’Ucsi vorrebbe essere “il lievito della pasta” attraverso la proposta formativa. In più essere punto di riferimento per l’Ordine e per i giornalisti al fine di ritornare ad assolvere il nostro ruolo sociale, ritrovando la libertà di esprimerci senza dipendere dai poteri che finanziano le nostre testate. Mi sembra che ci sia troppo poca proposta culturale a favore del bene comune. Tre sono, a mio avviso, le priorità su cui basare la deontologia del giornalismo: la responsabilità (saper valutare gli effetti e le conseguenze della notizia); la preparazione rigorosa (conoscere e saper applicare le tecniche della professione); la credibilità (rispettare la verità sostanziale dei fatti). In concreto l’Ucsi propone un corso nazionale per la professione, cura la rivista Desk che viene mandata ai soci, pubblica volumi legati al tema della comunicazione ed è al servizio delle Chiese locali per aiutarle a comunicare meglio.