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Sirio 09 - 15 dicembre 2024
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MEDIATICA

Il “senso” della Rai

In questa stagione di riforma, si dovrebbe parlare innanzitutto di contenuti

di Rino FARDA

23 Giugno 2014

La Rai è il soggetto di una licenza di “servizio pubblico”. Lo Stato riconosce alla Rai una funzione di “pubblica” utilità e, per questo motivo, chiede ai cittadini di pagare un canone annuale di abbonamento destinato a coprire una gran parte delle spese di funzionamento e di produzione. Questa licenza dovrà essere rinnovata entro il 2016. Tutto qui ma, ovviamente, non è poco. Intorno a queste poche informazioni si sta scatenando una delle battaglie culturali più importanti per il futuro del Paese. Per lunedì 23 giugno, negli studi di Via Teulada, è stata convocata una specie di assemblea pubblica, aperta anche agli esterni, per discutere il futuro e le strategie del “servizio pubblico”. E’ stata chiamata la “Leopolda” della Rai, dal nome che venne assegnato alcuni anni fa ai primi “think tank” dell’allora sindaco Matteo Renzi (che si svolgevano nella ex stazione ferroviaria della Leopolda). L’evento è stato organizzato da Luigi De Siervo, il dirigente della Rai amico stretto e fidato di Renzi da tempi non sospetti. Recentemente De Siervo è stato anche nominato a furor di popolo Presidente della AdRai, la potente associazione dei dirigenti di Via Mazzini. Gubitosi, intanto, ha dato mandato a Carlo Nardello, direttore dello sviluppo strategico della Rai, di organizzare e preparare i documenti per chiedere e ottenere, nel 2016, il rinnovo della licenza di “servizio pubblico”.

Oltre al prestigio, in gioco ci sono i soldi del canone (non sono pochi) e alcune “facility” (contratti esclusivi con il governo per la promozione dell’Italia all’estero, per “coprire” le attività del Parlamento o del Quirinale, solo per citare i più importanti e remunerativi) che fanno gola a molti operatori tv italiani. I broadcaster locali, per esempio, stanno già affilando le armi. Si sono riuniti in “syndication” e sfideranno la Rai sul rinnovo della licenza per i servizi di informazione regionale. Sono convinti di poter svolgere tale compito in modo più efficiente e capillare di quanto faccia la Rai. Il Governo, intanto, dietro il furore di alcune dichiarazioni del Premier (“non sono interessato alla Rai”) ha convocato una decina di esperti per studiare, in modo riservato, in che modo riformare tutto il “servizio pubblico radiotv” italiano. In questo dibattito è assente la cultura. Si tratta del deficit più evidente e drammatico. La Rai è la più grande “agenzia di senso” che ci sia in Italia. Svolge una funzione pedagogica in modo palese e, soprattutto, in modo implicito e subliminale (verrebbe da dire). Sono tanti i temi che dovrebbero essere affrontati per un progetto di sviluppo organico della più importante azienda di produzione culturale del Paese. A cominciare dal rispetto dovuto alle istanze religiose dei milioni di credenti che pagano il canone e che guardano la Rai. Invece, la Rai, per parlare di Francesco (il Santo) e per alludere all’altro Francesco (il Papa) richiama in Rai l’attore laico (e non credente) Dario Fo. Sembra un particolare, ma non lo è. Manca la visione generale.

Per parlare compiutamente di “servizio pubblico”, infatti, si dovrebbe cominciare a discutere, innanzi tutto, di “etica” del “servizio pubblico”. Il primo passo dovrebbe essere, quindi, quello di parlare dell’ideale del rispetto. Rispetto per tutti. Non solo per i tanti cattivi maestri del conformismo culturale che da tanti anni imperano in Italia. La sensazione è che siano ancora una volta le mode del momento a guidare le scelte. In attesa del rinnovo del contratto di “servizio pubblico”, in Rai si continuano a produrre programmi che sembrano orientati a soddisfare i piccoli appetiti dei soliti salotti di una “intellighentia” che ormai ha solo le leve del potere ma nessuna vera “intelligenza” strategica per il futuro del paese. Cosa si dovrebbe fare? Semplice a dirsi. Gli incontri e i dibattiti, invece che ai tecnicismi delle leggi per la nomina della Governance, dovrebbero essere dedicati, innanzi tutto, al contenuto. Cosa dovrà produrre il nuovo “servizio pubblico” del futuro per non tradire il significato più alto e nobile dell’aggettivo “pubblico”? La risposta non sarà facile. Preoccupa però che nessuno ne parli. In Rai, al Governo, o altrove.