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Cinema e tv

Il lieto fine non piace agli italiani

Gli esperti di comunicazione si interrogano sul ruolo che i mass media
hanno nella diffusione di sentimenti negativi

di Rino FARDA

6 Maggio 2013

Il professore Armando Fumagalli dell’Università Cattolica di Milano, uno dei massimi esperti italiani di cinema e tv, durante la presentazione del suo libro “Creatività al potere. Da Hollywood alla Pixar, passando per l’Italia”, ha spiegato che ad affliggere il cinema italiano c’è un’ideologia «fortemente contraria all’happy end», il lieto fine, una vera e propria «chiusura di principio» che rischia «di rendere spesso frustrante la visione stessa del film».

Il cinema è l’espressione culturale più efficace del presente. Nell’immaginario collettivo ha sostituito da tempo lo spazio che una volta era occupato dalla letteratura tradizionale. Fotografa le contraddizione della modernità e ne sublima gli aspetti più tragici. Con alcune peculiarità che possono cambiare da paese a paese. In Iran, per esempio, si è sviluppata una corrente cinematografica molto vicina al vecchio neorealismo italiano del dopoguerra. Ed è facile capire perché. In Usa da molti anni il lieto fine è un obbligo al quale nessuno può sottrarsi. Superati gli anni della contestazione degli anni Settanta e Ottanta (con alcuni film drammatici e impegnati che hanno segnato la storia del cinema), Hollywood ha capito presto che l’ottimismo vende meglio della disperazione. Si è tornati così alla filosofia delle origini, quella dell’happy end ad ogni costo, come ai tempi di autori come Walt Disney, Charlie Chaplin o Frank Capra. In Italia, invece, il pessimismo sembra prevalere.

Senza entrare nello specifico illustrato da Fumagalli, resta da riflettere sulle complesse dinamiche della comunicazione italiana. Inchieste volutamente choccanti, commenti impietosi, telecamere indugianti sui volti dei protagonisti della cronaca nera, informazione urlata. Durante lo speciale di “Mezz’ora”, il format di Rai Tre in onda eccezionalmente dal Festival del Giornalismo di Perugia, nello stesso giorno del tragico attentato davanti a Palazzo Chigi, Lucia Annunziata, correttamente, si è interrogata sul ruolo che i mass media hanno nella diffusione di sentimenti negativi, nell’istigazione all’odio sociale, nella crescita della frustrazione e del rancore dei cittadini. Solo qualche giorno prima, Papa Francesco aveva detto: «In questo periodo di crisi è importante non chiudersi in se stessi, ma aprirsi, essere attenti all’altro».

Aprirsi all’altro. Ecco la vera sfida. L’Italia è un Paese caratterizzato da un presenza record del volontariato. La generosità e l’altruismo non sono mai mancati nella storia del Paese reale. Anche nei periodi più bui. Resta da chiedersi allora perché, all’alba del terzo millennio l’Italia sembra aver abbandonato la strada della speranza. «Fare memoria grata del passato, vivere con passione il presente, aprirci con fiducia al futuro» erano gli auspici del Beato Giovanni Paolo II espressi nel 2001 nella “Novo Millennio Ineunte”, una lettera apostolica che invece sembra essere stata così poco capita dagli italiani. Le spiegazioni di questo pessimismo, però, potrebbero essere meno complicate di quanto si creda.

Per motivi politici strumentali gli italiani sono stati bombardati da molte informazioni negative. «L’Italia è stata rovinata dalla politica», oppure «Ma tanto rubano da tutte le parti», si diceva a destra come a sinistra. Gli esperti della comunicazione l’hanno chiamata la “macchina del fango” ma a rimanerne insozzati non sono stati gli avversari politici del momento ma l’intera comunità del nostro Paese. Un manager italiano di una potente major americana racconta agli amici che ogni volta che partecipa ad una riunione con i suoi colleghi di oltre oceano alza le mani e esordisce: «Scusate, sono italiano, ma non è colpa mia». Uno spot commerciale di un sapone che sta facendo molto rumore in America, potrebbe aiutare a capire meglio cosa sta succedendo nella psiche collettiva degli italiani. Si intitola «Le donne sono più belle di come pensano». Nel video, alcune donne, nascoste dietro a una tenda, descrivono il proprio aspetto a un disegnatore esperto in identikit. Poi, lo stesso disegnatore, le ritrae dal vero e il risultato è sconcertante. Il secondo disegno è sempre più bello del primo. Le donne non si accettano e tendono ad enfatizzare i propri difetti. Così come sta succedendo agli italiani. Verrebbe la voglia di dire: «Italiani siete migliori di come pensate. Recuperate il vostro tradizionale ottimismo».

La strada per raggiungere questo risultato è proprio quella indicata da Papa Francesco. Rimettersi in ascolto del proprio fratello e smettere di guardarsi l’ombelico. Lo diceva anche uno sceneggiatore come Zavattini, lo stesso di “Miracolo a Milano” (il primo lieto fine negli anni del neorealismo), che invitava i colleghi a prendere l’autobus per ascoltare la voce del Paese. Ascoltare gli altri. Basterebbe questo a riscoprire il fascino del “lieto fine”, non solo al cinema.