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«Andrò sulle orme di don Santoro…»

Don Giuliano Lonati è il primo prete ambrosiano che parte per la Turchia

5 Giugno 2008

06/02/2008

di Pino NARDI

Adesso si corona un sogno, sono contentissimo». Don Giuliano Lonati è il primo sacerdote della Chiesa ambrosiana che parte per la Turchia: andrà a fare il parroco a Samsun, sul Mar Nero. Sulle orme di don Andrea Santoro, che due anni fa ha pagato con la vita la sua testimonianza del Vangelo. Originario di Bareggio, 65 anni, don Giuliano è stato già fidei donum in Eritrea e in Perù. Sulle frontiere drammatiche del mondo per annunciare la tenerezza del Signore e per promuovere l’umanità di quelle popolazioni. «Sono il primo della diocesi che va in quel Paese, è un’apertura – sottolinea – spero sia l’inizio di un investimento che avrà un suo sviluppo».

Don Lonati, come nasce questa scelta?
«Già una decina d’anni fa ho chiesto ai superiori di poter lavorare in un Paese a maggioranza islamica dove la presenza dei cristiani è più che esigua, per vedere le possibilità di sviluppo del dialogo interreligioso, soprattutto pensando alla nostra diocesi e alla presenza musulmana qui. Quindi l’idea è quella di accostare l’islam nelle realtà dove siamo in minoranza. Inoltre affrontare l’ecumenismo, che mi sembra ancora un po’ a margine nella nostra vita cristiana, entrare in contatto con altre presenze cristiane diverse dalla cattolica. E poi la pace: il Medio Oriente, nell’immaginario collettivo, è sempre in subbuglio, vedere cosa si può dire e fare per annunciare il Signore, che è la pace, partendo dal presupposto di fede che il cristiano di per sé non può dire che nel mondo non ci sia la pace. Se il Signore è risorto ed è presente lo è con la sua dichiarazione di vita. Il cristiano parlerà più propriamente di rivelare e manifestare questa pace attraverso il perdono e la riconciliazione. I superiori hanno visto nella Turchia queste caratteristiche e io sono felicissimo di andare sperando di aprire una pista che anche altri possano percorrere».

Quale sarà la sua destinazione?
«Mons. Padovese, Vicario apostolico, mi ha destinato a Samsun, sulla linea Istanbul-Trebisonda sul Mar Nero. Adesso mi fermerò a Iskenderun per 4 mesi a studiare la lingua».

E le autorità turche le hanno dato il visto…
«Sì, a mio parere è un segnale bello, molto positivo, indice di un’accoglienza grande da parte del governo di quel Paese. Vuol dire che c’è voglia di collaborazione e di coltivare relazioni. Sono molto emozionato e contento».

Lei va in una terra che ha visto situazioni drammatiche come l’uccisione di don Santoro…
«In un’ottica di fede, non c’è da stupirsi che il cristiano contempla anche la morte per il Vangelo. Credo che don Andrea avesse messo in conto anche questa possibilità. Comunque, rimane sempre un fatto sconcertante, perché queste morti sono proprio il risvolto negativo, la chiusura totale e radicale dell’accoglienza, il rifiuto. È la storia di Gesù: l’uccisione come maniera più forte per dire “non ti voglio”. Bisogna mettere in conto tutto ciò, ma non è impressionante, basta vedere quanti martiri ci sono nella storia della Chiesa».

È possibile il dialogo con l’islam in Turchia?
«È una terra particolare: là si sono celebrati i grandi Concili, come Nicea, Efeso, Calcedonia, Costantinopoli; lì è nato Paolo… È sparito tutto, non c’è più traccia di vita cristiana vissuta in comunità come le conosciamo noi, se non resti archeologici. Questo è molto intrigante, perché bisogna cercare di capire questa storia, non immediatamente per importare il cristianesimo lì dove era una volta, ma per capire di più che la natura del cristiano è quella di essere pellegrino. Lì vivono soprattutto ortodossi e armeni: porta ad andare di più all’essenziale».

Qual è la sua storia di missione?
«Torno dal Perù, dove ho potuto vivere l’esperienza dell’evangelizzazione e dell’inculturazione, molto provocante soprattutto negli ambienti in cui ho vissuto, nelle Ande, che definivo il Perù vero, il più antico. Trovare i modi per dire il Vangelo di sempre è la nuova evangelizzazione, tematica complessa che merita di essere affrontata. Questa esperienza, dovuta a un’emergenza, è invece durata 8 anni».

In passato è stato in Africa…
«Infatti, 3 anni in Eritrea, quando il conflitto con l’Etiopia è arrivato al suo apice. Sono stati momenti drammatici. Nell’ultima messa che ho celebrato lì con la poca gente rimasta, 4 donne, in mezzo ai bombardamenti, dicevo: “Ma il Signore sta realizzando qualcosa di bene qui, però io non lo vedo”. E ci siamo messi a piangere. Sono esperienze forti da riversare nella nostra Chiesa.