Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono «autentici eroi della causa della legalità, della convivenza civile, della difesa dello Stato democratico»: sono parole del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, pronunciate nell’aula blindata dell’Ucciardone a Palermo, nella commemorazione dei due magistrati uccisi dalla mafia, nel 17° anniversario della strage di Capaci in cui persero la vita Falcone, sua moglie e la scorta. Eroi, ha aggiunto Napolitano, che consentono all’Italia di pensarsi come «una grande nazione unita», capace di «resistere e reagire alle pressioni e intimidazioni».
Occorre, perciò, puntare «sulla qualità della politica, sul prestigio delle istituzioni democratiche, sull’efficienza e la trasparenza». Ciò richiede «un clima di rispetto, in ogni circostanza, degli equilibri costituzionali da parte di coloro che sono chiamati a osservarli».
A Giuseppe Savagnone, direttore del Centro diocesano per la pastorale della cultura di Palermo e membro del Forum della Cei per il progetto culturale, abbiamo chiesto un commento a queste parole.
Cosa è cambiato nella lotta alla mafia dopo la morte di Falcone e Borsellino?
Lo Stato ha alzato di gran lunga il livello della lotta contro la mafia. Ricordo ancora gli anni in cui i mafiosi erano praticamente a piede libero perché lo Stato non perseguiva con decisione i malavitosi e tranquillamente il mafioso bivaccava al bar, all’angolo di casa sua, mentre ufficialmente risultava latitante. Oggi non è più così: da diversi anni, sotto vari governi, c’è stata una decisa svolta nella lotta contro la mafia da parte dei carabinieri, della magistratura. Certamente Falcone e Borsellino sono stati gli antesignani di questa svolta e hanno pagato con la vita.
Napolitano ha chiesto anche un clima di rispetto degli equilibri costituzionali…
Questo è molto delicato perché dobbiamo dire che a volte proprio il rispetto della legalità sembra oggetto di una sottovalutazione da parte di esponenti delle istituzioni che dovrebbero essere i primi a insegnare ai giovani a osservarlo. Tutti ci rendiamo conto che per i giovani imparare la legalità, il rispetto delle leggi e del bene comune non può prescindere dal buon esempio di coloro che hanno le massime cariche nella vita pubblica. Questo è un esempio che può essere altamente educativo o altamente diseducativo. Infatti, il rispetto delle strutture portanti della nostra convivenza civile sono lo sfondo della nostra lotta alla criminalità organizzata: se tali strutture sono trattate come carta straccia facciamo un grosso favore alla mafia.
Come possiamo interpretare l’invito all’unità nel ricordo di Falcone e Borsellino?
È più che pertinente perché su questo il Paese si può compattare e già in una certa misura lo ha fatto. Qui veramente destra e sinistra si ritrovano d’accordo: nella lotta alla mafia non ci sono voci dissonanti.
Possiamo, allora, considerare la lotta alla mafia come una lotta nazionale e non solo come una lotta del Sud?
Sì, anzi credo che questo sia decisivo. La questione meridionale è una questione nazionale e la lotta alla mafia, che è una questione particolarmente spinosa e dolorosa, è nazionale. Non possiamo pensare che il Sud possa uscirne da solo. Non si tratta di assistenzialismo, che in passato ha alimentato la mafia, invece di stroncarla. Il Sud deve essere capace di essere protagonista. Lo diceva anche il documento della Cei del 1989, Chiesa italiana e Mezzogiorno: i primi che potranno risolvere i problemi del Meridione sono gli uomini e le donne del Sud. Si chiede quindi che le persone del Sud si assumano tutte le loro responsabilità ma, al tempo stesso, perché la lotta sia feconda, è indispensabile che si stabiliscano dei rapporti virtuosi con le realtà di altri territori dello Stato con tutta la ricchezza della nostra dimensione nazionale. Quella che si prospetta non è una via di assistenzialismo, ma di comunicazione, di scambio, di cooperazione che non toglie nulla alla primaria responsabilità dei cittadini del Sud.
In questa lotta contro le mafie qual è l’impegno della Chiesa?
L’impegno della Chiesa si è molto sviluppato in questi anni. Le Chiese, specialmente quelle del Sud direttamente coinvolte, hanno fatto dei passi da gigante: la denuncia è diventata frequente, coraggiosa, energica. Quello che manca nella nostra società, e in cui la Chiesa potrebbe avere un ruolo decisivo, è una sistematica educazione alla cittadinanza, che dal punto di vista della Chiesa significherebbe una formazione permanente alla Dottrina sociale, che dovrebbe essere un punto cruciale della catechesi e della evangelizzazione. In questa settimana l’assemblea della Cei stabilirà come Orientamenti pastorali per il prossimo decennio il tema educativo. Uno dei punti di questo impegno sarà certamente anche l’educazione alla cittadinanza, cioè l’educazione non solo alla legalità, ma al bene comune. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono «autentici eroi della causa della legalità, della convivenza civile, della difesa dello Stato democratico»: sono parole del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, pronunciate nell’aula blindata dell’Ucciardone a Palermo, nella commemorazione dei due magistrati uccisi dalla mafia, nel 17° anniversario della strage di Capaci in cui persero la vita Falcone, sua moglie e la scorta. Eroi, ha aggiunto Napolitano, che consentono all’Italia di pensarsi come «una grande nazione unita», capace di «resistere e reagire alle pressioni e intimidazioni».Occorre, perciò, puntare «sulla qualità della politica, sul prestigio delle istituzioni democratiche, sull’efficienza e la trasparenza». Ciò richiede «un clima di rispetto, in ogni circostanza, degli equilibri costituzionali da parte di coloro che sono chiamati a osservarli».A Giuseppe Savagnone, direttore del Centro diocesano per la pastorale della cultura di Palermo e membro del Forum della Cei per il progetto culturale, abbiamo chiesto un commento a queste parole.Cosa è cambiato nella lotta alla mafia dopo la morte di Falcone e Borsellino?Lo Stato ha alzato di gran lunga il livello della lotta contro la mafia. Ricordo ancora gli anni in cui i mafiosi erano praticamente a piede libero perché lo Stato non perseguiva con decisione i malavitosi e tranquillamente il mafioso bivaccava al bar, all’angolo di casa sua, mentre ufficialmente risultava latitante. Oggi non è più così: da diversi anni, sotto vari governi, c’è stata una decisa svolta nella lotta contro la mafia da parte dei carabinieri, della magistratura. Certamente Falcone e Borsellino sono stati gli antesignani di questa svolta e hanno pagato con la vita.Napolitano ha chiesto anche un clima di rispetto degli equilibri costituzionali…Questo è molto delicato perché dobbiamo dire che a volte proprio il rispetto della legalità sembra oggetto di una sottovalutazione da parte di esponenti delle istituzioni che dovrebbero essere i primi a insegnare ai giovani a osservarlo. Tutti ci rendiamo conto che per i giovani imparare la legalità, il rispetto delle leggi e del bene comune non può prescindere dal buon esempio di coloro che hanno le massime cariche nella vita pubblica. Questo è un esempio che può essere altamente educativo o altamente diseducativo. Infatti, il rispetto delle strutture portanti della nostra convivenza civile sono lo sfondo della nostra lotta alla criminalità organizzata: se tali strutture sono trattate come carta straccia facciamo un grosso favore alla mafia.Come possiamo interpretare l’invito all’unità nel ricordo di Falcone e Borsellino?È più che pertinente perché su questo il Paese si può compattare e già in una certa misura lo ha fatto. Qui veramente destra e sinistra si ritrovano d’accordo: nella lotta alla mafia non ci sono voci dissonanti.Possiamo, allora, considerare la lotta alla mafia come una lotta nazionale e non solo come una lotta del Sud?Sì, anzi credo che questo sia decisivo. La questione meridionale è una questione nazionale e la lotta alla mafia, che è una questione particolarmente spinosa e dolorosa, è nazionale. Non possiamo pensare che il Sud possa uscirne da solo. Non si tratta di assistenzialismo, che in passato ha alimentato la mafia, invece di stroncarla. Il Sud deve essere capace di essere protagonista. Lo diceva anche il documento della Cei del 1989, Chiesa italiana e Mezzogiorno: i primi che potranno risolvere i problemi del Meridione sono gli uomini e le donne del Sud. Si chiede quindi che le persone del Sud si assumano tutte le loro responsabilità ma, al tempo stesso, perché la lotta sia feconda, è indispensabile che si stabiliscano dei rapporti virtuosi con le realtà di altri territori dello Stato con tutta la ricchezza della nostra dimensione nazionale. Quella che si prospetta non è una via di assistenzialismo, ma di comunicazione, di scambio, di cooperazione che non toglie nulla alla primaria responsabilità dei cittadini del Sud.In questa lotta contro le mafie qual è l’impegno della Chiesa?L’impegno della Chiesa si è molto sviluppato in questi anni. Le Chiese, specialmente quelle del Sud direttamente coinvolte, hanno fatto dei passi da gigante: la denuncia è diventata frequente, coraggiosa, energica. Quello che manca nella nostra società, e in cui la Chiesa potrebbe avere un ruolo decisivo, è una sistematica educazione alla cittadinanza, che dal punto di vista della Chiesa significherebbe una formazione permanente alla Dottrina sociale, che dovrebbe essere un punto cruciale della catechesi e della evangelizzazione. In questa settimana l’assemblea della Cei stabilirà come Orientamenti pastorali per il prossimo decennio il tema educativo. Uno dei punti di questo impegno sarà certamente anche l’educazione alla cittadinanza, cioè l’educazione non solo alla legalità, ma al bene comune.