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Evento

Eccezionale scoperta nel lecchese: un dipinto inedito di Carpaccio

L'opera rinascimentale, individuata nella chiesa parrocchiale di Sirtori nel corso del lavoro di catalogazione dei beni artistici avviato dalla diocesi di Milano e sconosciuta alla critica, è stata presentata giovedì 10 marzo, nell'ambito di una conferenza stampa sul progetto in atto.

di Luca FRIGERIO

20 Luglio 2011

Ci sono ancora tesori da scoprire nelle nostre chiese. Anche se a volte sono sotto gli occhi di tutti. Ma bisogna saperli riconoscere, valutare nella loro importanza, tutelarli e valorizzarli. Come è accaduto nel corso della catalogazione dei beni culturali parrocchiali nella provincia di Lecco, dove è stato "ritrovato" un autentico capolavoro sconosciuto alla critica: un dipinto databile agli inizi del Cinquecento che gli esperti oggi attribuiscono addirittura a Vittore Carpaccio, uno dei pittori più significativi del Rinascimento veneziano.

Sembra una fiaba, e invece è il frutto di quel capillare lavoro di schedatura che la diocesi di Milano ha avviato sul suo territorio ormai da diversi anni, e che ha già portato in passato a importanti risultati. La preziosa tela, presentata proprio durante la conferenza stampa che ha illustrato il programma di inventariazione nelle parrocchie lecchesi (attivato dall’Ufficio diocesano per i Beni culturali grazie ai proventi dell’8 per mille e con il sostegno della Fondazione della Provincia di Lecco), ha dimensioni considerevoli (circa 140 centimetri di base per 160 d’altezza) e raffigura Dio Padre attorniato da angeli e cherubini. L’Eterno si erge maestoso e ieratico fra le nuvole, la mano destra alzata in un gesto di benedizione, la sinistra a reggere un globo sormontato da una croce. A dare ancora maggior monumentalità alla figura, concorre l’espressione corrucciata del volto e la lunga barba bipartita.

Il dipinto pervenne nella chiesa in cui attualmente è conservato – quella dei Santi Nabore e Felice a Sirtori – nel 1866 quale dono di Maria Manara, madre del celebre patriota risorgimentale Luciano, che morì nel 1849 durante la difesa di Roma. L’opera presenta il nome di Luca Signorelli, ma si tratta di un’attribuzione ottocentesca del tutto priva di fondamento, in quanto lo stile del quadro non è correlabile con la pittura del maestro toscano del Cinquecento.

Forti analogie, invece, questa tela le presenta proprio con i lavori di Vittore Carpaccio, e in particolar modo con la pala dell’Apoteosi di sant’Orsola (oggi esposta alle Gallerie dell’Accademia a Venezia), dove il Dio Padre che vi è raffigurato appare strettamente somigliante con questo lecchese appena scoperto.

Il dipinto, in ogni caso, così come oggi si presenta (recentemente restaurato), è un lacerto di una composizione di maggiori dimensioni, sebbene "camuffato" come opera finita. Lo dimostra la presenza di figure tagliate ai lati della composizione, e soprattutto il fatto che l’Eterno sia rappresentato con lo sguardo rivolto verso il basso, a mirare e benedire, cioè, quanto sta avvenendo sotto di lui (proprio come nella pala veneziana di sant’Orsola).

Come afferma Gabriele Cavallini – che al quadro ha dedicato un primo saggio pubblicato nel volume Studi in onore di Francesca Flores d’Arcais (dell’Istituto di storia dell’arte dell’Università Cattolica di Milano), avendolo egli stesso individuato insieme a Giovanna Virgilio nell’ambito della campagna di schedatura promossa dalla diocesi ambrosiana -, purtroppo non esistono documenti nell’archivio della famiglia Manara che possano spiegare la provenienza di quest’opera prima della sua donazione alla chiesa lecchese. L’ipotesi più probabile è dunque che sia stato acquistato sul mercato antiquario nei primi anni del XIX secolo, dopo cioè le dispersioni che hanno colpito in particolar modo il patrimonio degli enti religiosi veneziani.

Al momento, però, non è possibile, neppure in via ipotetica, risalire al contesto di cui originariamente questo "frammento" oggi ritrovato faceva parte, in quanto non si ha notizia di pale o polittici relativi a Carpaccio e alla sua scuola che sono andati perduti o smembrati. Quanto alla datazione, invece, Cavallini propone di assegnare questo dipinto alla maturità del maestro veneziano, cioè attorno al 1520, non escludendo la partecipazione del figlio Benedetto, che del resto basò la sua attività artistica sulla ripresa costante dei modelli paterni.

La sistematica ricognizione nelle chiese, parrocchiali e non, dei decanati lecchesi, ha dunque messo in evidenza la straordinaria, e per certi versi, inaspettata ricchezza delle testimonianze artistiche disseminate sul territorio. Una schedatura che, come nel caso eclatante della tela del Carpaccio, ha portato alla riscoperta di tesori sconosciuti o dimenticati, e che costituisce un importante strumento di lotta contro i furti di opere d’arte. «Ma questo lavoro – ha spiegato mons. Franco Giulio Brambilla, vicario episcopale alla cultura dell’arcidiocesi di Milano, intervendo alla presentazione insieme a Romano Negri, presidente della Fondazione della Provincia di Lecco Onlus – potrà anche valorizzare la storia della devozione e delle tradizioni delle comunità locali. Le opere d’arte nelle nostre chiese, infatti, non solo danno vita e parola alla memoria, ma diventano un autentico incontro con la bellezza della fede».

Insomma, un’opera straordinaria sotto ogni profilo, questa di Carpaccio, che ancora dovrà rivelare i suoi molti segreti, ma che ora, grazie al lavoro di catalogazione promosso dalla diocesi di Milano è stato portato all’attenzione degli studiosi e all’ammirazione del pubblico.

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